BUONE PRASSI E VALIDITA’ DELLA PSICOTERAPIA

La psicoterapia è uno strumento efficace e valido, basato su buone prassi condivise per il sostegno e la cura psicologica della persona.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948) definisce la salute come: “Lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, e questa definizione risponde alla constatazione che la salute, per l’uomo del terzo millennio, diventa correlata sia allo stile di vita sia ad una  armoniosa crescita personale e sociale.

Diventa dunque doveroso per gli operatori della salute interagire attraverso un percorso comune di acquisizioni, progetti condivisi e esperienze affinché la comprensione dei bisogni della persona nella sua complessità si esplichi in pratiche di cura sempre più significative ed ottimali.

L’attivazione di interventi integrati diventa, quindi, la risposta a una domanda di salute più complessa e sempre più orientata all’accoglienza di nuove concezioni e aperture nell’umano sentire e percepire che finalmente soddisfino il bisogno di ben-essere nelle persone.

Di fronte ai continui mutamenti sociali, si rende indispensabile l’interpretazione tempestiva del cambiamento, individuando le risorse in atto e promuovendo le nuove che necessariamente saranno orientate verso la serenità relazionale.

Nell’innovazione si rende, dunque, indispensabile rivedere e mettere a confronto i sistemi di riferimento di molte discipline. Così, il concetto di “buone prassi” torna alla ribalta con nuove integrazioni strutturali.

Si definiscono “buone prassi“ quelle linee guida da condividere e applicare in un ambito specifico. Esse sono il frutto di una ricerca congiunta che avvalori l’esperienza in tale ambito; una volta elaborate, queste linee guida diventano garanzia di trasparenza e affidabilità rispetto all’utilizzo di una qualsivoglia tecnica attinente all’ambito stesso della ricerca.

Inoltre, le ”buone prassi” possono definirsi tali se presentano una elevata  flessibilità progettuale e una stretta prossimità ai bisogni sociali, così come la presenza di capacità innovative sia in senso organizzativo che culturale, con forti connotazioni di riproducibilità e efficacia.

Si riscontrano, comunque, delle costanti, e su queste la ricerca pone l’attenzione verso la condivisione dell’accezione di “buone prassi”. Esse sono: da un lato, il riferimento, diretto o indiretto, alla metodologia del miglioramento continuo della qualità; e dall’altro il riferimento alle evidenze scientifiche – dove esse siano presenti (Tozzi et.al.,2011).

Per la sicurezza sanitaria, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta approntando protocolli incentrati sui progetti di prevenzione, educazione e soluzione concreta derivanti da esperienze basate su standard di qualità e sicurezza per il paziente, tenendo presente che: “Una pratica più sicura può anche essere descritta come una raccolta di numerose pratiche individuali che implicano decisioni e cambiamenti”, come spiega Woodwar Suzette, Direttore della Patient Safety Strategy presso la National Patient Safety Agency nel Regno Unito.

Il dibattito è aperto e critico e ha come punto di riferimento la necessità di ricreare indicatori specifici di buone prassi da monitorare nel tempo.

Il tema della sicurezza apre le porte alla grande problematica dell’efficacia di metodi, strategie, tecniche e cure ampiamente testate anche nel campo del mentale, ed entreremo ora nel merito specifico di una delle buone prassi più raccomandata a livello internazionale per la cura di molti disturbi psicologici: la Psicoterapia.

Prima di addentrarci nell’argomento, vorrei porre l’attenzione sul termine “è raccomandata” con alcune considerazioni etiche ed esempi. Quando ci rivolgiamo al nostro medico per ricevere una diagnosi e poi la cura, non mettiamo in discussione l’una o l’altra né lo sentiremo esprimersi in termini di “forse” o “è consigliato” o “è opportuno”, ma piuttosto lo percepiremo sicuro e perentorio e nei termini e nelle azioni.

La comunicazione di determinati termini, infatti, rende l’intenzione e ne determina l’azione; una frase che conterrà la parola “deve” ci rimanda all’obbligatorietà senza mezzi termini, così come una frase che contiene “dovrebbe” indica un requisito raccomandato e una frase che contiene “opportuno” preannuncia un’azione facoltativa.

Nella miglior pratica clinica tutti gli sforzi puntano a rendere consapevole il paziente di quello che sta accadendo, del perché della scelta di quella particolare terapia e quali risultati sono attesi. La parola sicura del medico è in un certo senso già parte della cura; simbolicamente, proprio il “camice bianco” evoca fiducia e speranza.

Dunque, uno dei motivi per cui ci affidiamo al nostro medico e torniamo a lui è la sua sicurezza nell’evidenza dei fatti, e questo rende già un servigio alla cura proprio in linea con l’ormai assodato presupposto che qualunque cura si potenzia nel rapporto col medico. L’insicurezza che denota il paziente sofferente e preoccupato per la sua salute viene così colmata e placata dalla sicura professionalità del medico e la via della guarigione diventa la nuova realtà.

In ambito psicologico, l’individuo ideale è e rimane un individuo indipendente, libero, autonomo nel suo agire, diverso nella sua unicità, che improvvisamente vede sfaldarsi il suo equilibrio per dei capricci della mente che lo rendono affettivamente infantile e fragile e che vorrebbe trovare una soluzione “medica” al disagio e ai disturbi inquietanti che lo sovrastano. 

Quando la persona giunge dallo psicologo clinico si troverà di fronte ad un paradosso solo apparentemente linguistico: non troverà la stessa perentorietà rassicurante del suo medico e le si chiederà di aprirsi ad una visione diversa del suo disagio, per affrontare una relazione umana che ridisegnerà le sue priorità di crescita personale e il suo benessere.

Questo paradosso non è sempre compreso e pone degli interrogativi. L’interesse destatosi nella ricerca psicoterapeutica negli ultimi quindici anni tende a rendere la psicoterapia una cura compresa e non criptica, e, stando al passo con i tempi, provvede a dimostrarne l’efficacia. Finalmente iniziano a essere di dominio pubblico i sorprendenti risultati di ricerche congiunte in questo campo.

Si è dimostrato che la psicoterapia apporta significativi cambiamenti nell’attività funzionale cerebrale dei pazienti e che tali modificazioni sono strettamente correlate al miglioramento clinico. Tali cambiamenti, inoltre, riguardano l’attività funzionale delle aree sia corticali, sia sottocorticali implicate nella specifica patologia studiata e non in altre aree (Cloninger, Svarik & Przybeck, 2006).

Così come riveste interesse la scoperta che sia la psicoterapia che il farmaco sono entrambi efficaci e in parte sovrapponibili nella cura delle diverse patologie psichiatriche, in quanto genererebbero entrambi un miglioramento clinico modificando l’attività neuronale, spesso delle medesime aree del cervello, ed inducendo anche cambiamenti nella stessa direzione di alcuni parametri biologici (Migone, 2009).

Vi è inoltre la conferma scientifica che i miglioramenti complessivi – dal sintomo alla qualità della vita e alla soddisfazione personale – dei pazienti trattati con psicoterapia sono dell’80% più durevoli in confronto a quelle persone che, in presenza degli stessi disturbi psicologici, non si sottopongono a cure psicoterapeutiche (Lambert et al.,2002).

A prescindere dagli approcci impiegati e dalla loro validazione, è necessario tener presente che gli orientamenti psicoterapeutici adottati nella pratica clinica sono molteplici e per ognuno di essi vi sono prove di efficacia di diversa natura, come la qualità della relazione terapeutica (Grasso, 2010) e l’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002) nelle psicoterapie psicodinamiche.

Come a tal riguardo afferma Fonagy: ”Non è tanto importante La ricerca quanto che tipo di ricerca – clinica, concettuale, storica, empirica – capace di arricchire le conoscenze psicoanalitiche e sostenere il lavoro clinico” (Fonagy, 1999, corsivo mio), in quanto la psicanalisi ottiene risultati simili alle altre psicoterapie, e senz’altro produce gli stessi cambiamenti strutturali nel funzionamento della personalità (Ortu, 2007).

Nei limiti di questo contributo, la panoramica esposta rileva una contemporaneità di questo straordinario metodo di cura per i disturbi mentali che denota anche l’aggiornamento culturale costante integrato con le diverse realtà globali.

Vorrei concludere con una citazione di Abraham Maslow che a mio avviso trovo molto attuale e che ci può aiutare a non perdere il senso del nostro lavoro immersi come siamo nel marasma di continui mutamenti  globali spesso non congeniali con la nostra storia o con le nostre aspettative di vita. Maslow dice:

“Che cos’è psicopatologico? Tutto ciò che disturba o impedisce l’autorealizzazione. Che cos’è la psicoterapia ed a che cosa serve? Si tratta di mezzi che aiutano a ristabilire la persona sulla via dell’autorealizzazione e dello sviluppo, lungo la linea indicata dalla natura interiore.”
                                                                       


ALLENAMENTO ALL’ASCOLTO EMPATICO

“Potrebbe essere proficuo staccarsi dall’abitudine di star ad ascoltare soltanto quello che risulta subito chiaro.” – Martin Heidegger –

ABSTRACT
La nostra relazione con l’altro è caratterizzata da una comunicazione vicendevole basata sull’esprimere il proprio mondo e i propri bisogni e sull’ascolto della visione del mondo e dei bisogni dell’altro. La percezione e la conoscenza che più ci appassiona nella nostra vita è quella degli altri, essa diventa da subito il nostro imprinting vitale nel calore e nel rispecchiamento visivo amoroso, come nell’udire la voce soffusa e limpida della madre, di colei che si presenta nel nostro nuovo universo sconosciuto e ci guida alla sua scoperta.

L’esperienza comunicativa verbale, così come il prestare ascolto e comprendere gli altri, rientrano a tal punto nella nostra vita quotidiana che può accadere di sottovalutarne il valore; mentre basterebbe soffermarsi a riflettere su quanta importanza riveste per noi riuscire a comunicare i nostri bisogni e i nostri desideri – dai più semplici a i più complessi – e far sì che gli altri ci aiutino a soddisfarli e a realizzarli.

Per buona parte della nostra vita, dunque, rincorreremo il nostro impegno con gli altri nel tentativo di comprenderci e accordarci l’un l’altro in un coinvolgimento comunicativo sempre più vitale. Ora vedremo passo passo cosa comporta il prestare ascolto quando ciò che noi abbiamo espresso verbalmente è una difficoltà, un dolore, qualcosa che ci tormenta emotivamente. Partendo da noi stessi e dal nostro bisogno di essere emozionalmente capiti, possiamo allenarci ad un ascolto empatico dell’altro significativo e, nello stesso tempo, comprenderemo maggiormente noi stessi in quelle fasi caotiche interiori dove il pensiero razionale viene meno.

DIVERSI STATI MENTALI
Nell’intervenire e nel prestare ascolto, noi attiviamo contemporaneamente differenti stati mentali legati ad emozioni diversificate, e questo è uno dei motivi per cui alcune comunicazioni riescono e altre no. Se siamo in grado di riconoscere come ci sentiamo nel nostro stato psicofisiologico attuale senza esserne sopraffatti, possiamo coinvolgerci e coinvolgere l’altro in una verbalizzazione emozionale centrata sulla disponibilità e sull’attenzione di ciò che viene detto oltre le parole, nell’accoglienza non giudicante del messaggio.

RICONOSCIAMO IN NOI IL NOSTRO STATO D’ANIMO
Se siamo preoccupati per qualcosa di importante e ne vogliamo parlare, la nostra capacità di ascoltare diminuisce sensibilmente: eppure sentiamo il bisogno che l’altro ci rassicuri, ci consigli. Domandiamoci, allora, mentre l’altro ci parla, cosa ci vuole comunicare di suo senza necessariamente intendere il suo vissuto come un attacco minaccioso a noi, e quindi senza assumere una modalità difensiva che per forza di cose blocca il flusso empatico.

RICONOSCIAMO NELL’ALTRO IL SUO STATO D’ANIMO
Rispondere, pretendere di farci capire, dall’altro che sta tentando di esprimere dei sentimenti forti emozionalmente, lo spingerà ancora di più a ricercare un riconoscimento delle sue emozioni. Volgiamo, dunque, la nostra attenzione al tono, al ritmo, al modo, al come vengono espressi i contenuti.

Dunque, la disponibilità e l’attenzione all’altro genera un circolo virtuoso nella relazione ma solo se siamo i primi a rapportarci con rispetto e ascolto emozionale di noi stessi. Se viviamo nell’attesa magica che sia l’altro a capire cosa vogliamo comunicare, cosa vogliamo dire, che sia l’altro ad amarci incondizionatamente mentre siamo sconosciuti a noi stessi, la comunicazione subirà disfatte e incomprensioni.

Questo mio contributo è rivolto alle relazioni di coppia, agli amici che non si comprendono, ai genitori che “non capiscono” cosa vogliono dire i loro figli, a tutti coloro che desiderano accrescere la loro capacità di comunicare più chiaramente con gli altri e che desiderano comprendere loro stessi nel profondo.