BUONE PRASSI E VALIDITA’ DELLA PSICOTERAPIA

La psicoterapia è uno strumento efficace e valido, basato su buone prassi condivise per il sostegno e la cura psicologica della persona.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948) definisce la salute come: “Lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, e questa definizione risponde alla constatazione che la salute, per l’uomo del terzo millennio, diventa correlata sia allo stile di vita sia ad una  armoniosa crescita personale e sociale.

Diventa dunque doveroso per gli operatori della salute interagire attraverso un percorso comune di acquisizioni, progetti condivisi e esperienze affinché la comprensione dei bisogni della persona nella sua complessità si esplichi in pratiche di cura sempre più significative ed ottimali.

L’attivazione di interventi integrati diventa, quindi, la risposta a una domanda di salute più complessa e sempre più orientata all’accoglienza di nuove concezioni e aperture nell’umano sentire e percepire che finalmente soddisfino il bisogno di ben-essere nelle persone.

Di fronte ai continui mutamenti sociali, si rende indispensabile l’interpretazione tempestiva del cambiamento, individuando le risorse in atto e promuovendo le nuove che necessariamente saranno orientate verso la serenità relazionale.

Nell’innovazione si rende, dunque, indispensabile rivedere e mettere a confronto i sistemi di riferimento di molte discipline. Così, il concetto di “buone prassi” torna alla ribalta con nuove integrazioni strutturali.

Si definiscono “buone prassi“ quelle linee guida da condividere e applicare in un ambito specifico. Esse sono il frutto di una ricerca congiunta che avvalori l’esperienza in tale ambito; una volta elaborate, queste linee guida diventano garanzia di trasparenza e affidabilità rispetto all’utilizzo di una qualsivoglia tecnica attinente all’ambito stesso della ricerca.

Inoltre, le ”buone prassi” possono definirsi tali se presentano una elevata  flessibilità progettuale e una stretta prossimità ai bisogni sociali, così come la presenza di capacità innovative sia in senso organizzativo che culturale, con forti connotazioni di riproducibilità e efficacia.

Si riscontrano, comunque, delle costanti, e su queste la ricerca pone l’attenzione verso la condivisione dell’accezione di “buone prassi”. Esse sono: da un lato, il riferimento, diretto o indiretto, alla metodologia del miglioramento continuo della qualità; e dall’altro il riferimento alle evidenze scientifiche – dove esse siano presenti (Tozzi et.al.,2011).

Per la sicurezza sanitaria, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta approntando protocolli incentrati sui progetti di prevenzione, educazione e soluzione concreta derivanti da esperienze basate su standard di qualità e sicurezza per il paziente, tenendo presente che: “Una pratica più sicura può anche essere descritta come una raccolta di numerose pratiche individuali che implicano decisioni e cambiamenti”, come spiega Woodwar Suzette, Direttore della Patient Safety Strategy presso la National Patient Safety Agency nel Regno Unito.

Il dibattito è aperto e critico e ha come punto di riferimento la necessità di ricreare indicatori specifici di buone prassi da monitorare nel tempo.

Il tema della sicurezza apre le porte alla grande problematica dell’efficacia di metodi, strategie, tecniche e cure ampiamente testate anche nel campo del mentale, ed entreremo ora nel merito specifico di una delle buone prassi più raccomandata a livello internazionale per la cura di molti disturbi psicologici: la Psicoterapia.

Prima di addentrarci nell’argomento, vorrei porre l’attenzione sul termine “è raccomandata” con alcune considerazioni etiche ed esempi. Quando ci rivolgiamo al nostro medico per ricevere una diagnosi e poi la cura, non mettiamo in discussione l’una o l’altra né lo sentiremo esprimersi in termini di “forse” o “è consigliato” o “è opportuno”, ma piuttosto lo percepiremo sicuro e perentorio e nei termini e nelle azioni.

La comunicazione di determinati termini, infatti, rende l’intenzione e ne determina l’azione; una frase che conterrà la parola “deve” ci rimanda all’obbligatorietà senza mezzi termini, così come una frase che contiene “dovrebbe” indica un requisito raccomandato e una frase che contiene “opportuno” preannuncia un’azione facoltativa.

Nella miglior pratica clinica tutti gli sforzi puntano a rendere consapevole il paziente di quello che sta accadendo, del perché della scelta di quella particolare terapia e quali risultati sono attesi. La parola sicura del medico è in un certo senso già parte della cura; simbolicamente, proprio il “camice bianco” evoca fiducia e speranza.

Dunque, uno dei motivi per cui ci affidiamo al nostro medico e torniamo a lui è la sua sicurezza nell’evidenza dei fatti, e questo rende già un servigio alla cura proprio in linea con l’ormai assodato presupposto che qualunque cura si potenzia nel rapporto col medico. L’insicurezza che denota il paziente sofferente e preoccupato per la sua salute viene così colmata e placata dalla sicura professionalità del medico e la via della guarigione diventa la nuova realtà.

In ambito psicologico, l’individuo ideale è e rimane un individuo indipendente, libero, autonomo nel suo agire, diverso nella sua unicità, che improvvisamente vede sfaldarsi il suo equilibrio per dei capricci della mente che lo rendono affettivamente infantile e fragile e che vorrebbe trovare una soluzione “medica” al disagio e ai disturbi inquietanti che lo sovrastano. 

Quando la persona giunge dallo psicologo clinico si troverà di fronte ad un paradosso solo apparentemente linguistico: non troverà la stessa perentorietà rassicurante del suo medico e le si chiederà di aprirsi ad una visione diversa del suo disagio, per affrontare una relazione umana che ridisegnerà le sue priorità di crescita personale e il suo benessere.

Questo paradosso non è sempre compreso e pone degli interrogativi. L’interesse destatosi nella ricerca psicoterapeutica negli ultimi quindici anni tende a rendere la psicoterapia una cura compresa e non criptica, e, stando al passo con i tempi, provvede a dimostrarne l’efficacia. Finalmente iniziano a essere di dominio pubblico i sorprendenti risultati di ricerche congiunte in questo campo.

Si è dimostrato che la psicoterapia apporta significativi cambiamenti nell’attività funzionale cerebrale dei pazienti e che tali modificazioni sono strettamente correlate al miglioramento clinico. Tali cambiamenti, inoltre, riguardano l’attività funzionale delle aree sia corticali, sia sottocorticali implicate nella specifica patologia studiata e non in altre aree (Cloninger, Svarik & Przybeck, 2006).

Così come riveste interesse la scoperta che sia la psicoterapia che il farmaco sono entrambi efficaci e in parte sovrapponibili nella cura delle diverse patologie psichiatriche, in quanto genererebbero entrambi un miglioramento clinico modificando l’attività neuronale, spesso delle medesime aree del cervello, ed inducendo anche cambiamenti nella stessa direzione di alcuni parametri biologici (Migone, 2009).

Vi è inoltre la conferma scientifica che i miglioramenti complessivi – dal sintomo alla qualità della vita e alla soddisfazione personale – dei pazienti trattati con psicoterapia sono dell’80% più durevoli in confronto a quelle persone che, in presenza degli stessi disturbi psicologici, non si sottopongono a cure psicoterapeutiche (Lambert et al.,2002).

A prescindere dagli approcci impiegati e dalla loro validazione, è necessario tener presente che gli orientamenti psicoterapeutici adottati nella pratica clinica sono molteplici e per ognuno di essi vi sono prove di efficacia di diversa natura, come la qualità della relazione terapeutica (Grasso, 2010) e l’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002) nelle psicoterapie psicodinamiche.

Come a tal riguardo afferma Fonagy: ”Non è tanto importante La ricerca quanto che tipo di ricerca – clinica, concettuale, storica, empirica – capace di arricchire le conoscenze psicoanalitiche e sostenere il lavoro clinico” (Fonagy, 1999, corsivo mio), in quanto la psicanalisi ottiene risultati simili alle altre psicoterapie, e senz’altro produce gli stessi cambiamenti strutturali nel funzionamento della personalità (Ortu, 2007).

Nei limiti di questo contributo, la panoramica esposta rileva una contemporaneità di questo straordinario metodo di cura per i disturbi mentali che denota anche l’aggiornamento culturale costante integrato con le diverse realtà globali.

Vorrei concludere con una citazione di Abraham Maslow che a mio avviso trovo molto attuale e che ci può aiutare a non perdere il senso del nostro lavoro immersi come siamo nel marasma di continui mutamenti  globali spesso non congeniali con la nostra storia o con le nostre aspettative di vita. Maslow dice:

“Che cos’è psicopatologico? Tutto ciò che disturba o impedisce l’autorealizzazione. Che cos’è la psicoterapia ed a che cosa serve? Si tratta di mezzi che aiutano a ristabilire la persona sulla via dell’autorealizzazione e dello sviluppo, lungo la linea indicata dalla natura interiore.”
                                                                       


RIDEFINIRE I PROPRI OBIETTIVI – Dai Bisogni all’autorealizzazione nella “fase 2 – convivenza con il virus”

“Lo sviluppo, il compimento di sé, saranno mai possibili senza dolore e pena, senza disperazione e tormento?” (Abraham H. Maslow)

In questo momento storico che vede la ri-progettazione di molti aspetti della nostra vita, questo articolo intende definire come sia difficile ora riformulare tale progettazione partendo dai bisogni fondamentali di benessere, lavoro, autorealizzazione, quando solo fino a ieri – dove la normalità si fondeva con la facilità a realizzare desideri consumistici – ci sembrava di poter confermare la presunzione imperante di una soddisfazione immediata in molti ambiti della nostra vita.

La lunga quarantena dovuta al Coronavirus può aver fiaccato anche la più energica motivazione al cambiamento e alla autorealizzazione ed è ora di vitale importanza riappropriarsi di tale motivazione anche per affrontare i problemi della conseguente crisi economica globale che investe l’esistenza di ciascuno.

E’ opportuno ora reimpostare i propri progetti, partendo dall’assunzione delle proprie emozioni, in quanto, solo riconoscendo le proprie emozioni e dando valore ad esse, si è poi in grado di investire i propri progetti di motivazione e portarli a compimento.

Siamo talmente abituati a misconoscere le nostre emozioni “scomode”, con le conseguenti tensioni che ci disturbano nell’efficiente andare per il mondo, che quando esse irrompono in noi creando un disequilibrio, ci spaventiamo al punto da innescare una protezione disfunzionale dalla nostra interiorità.

Accogliere la tensione – generalmente associata allo stress – che le emozioni – che consideriamo come “negative” – ci inducono, può apportare una nuova spinta creativa ai nostri progetti che in questo momento storico ci appaiono come irrealizzabili.

E certi progetti, per essere realizzati, hanno bisogno di tensione, una tensione fisica e psicologica, che ci aiuta a selezionare gli stimoli esterni che di volta in volta si frappongono nel processo di organizzazione che mettiamo in atto nella realizzazione di un progetto, e stimoli interni a noi stessi che ci portano a rinunciare, procrastinare, difenderci anche, e alle credenze dannose alla nostra crescita personale derivanti da indottrinamenti famigliari, ambientali, culturali, di genere.

La spinta alla progettazione di qualcosa che può migliorare la nostra vita parte da bisogni primari per la natura umana che possiamo raggruppare in bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di amore, di rispetto, di informazione.

Questi bisogni primari sono percepiti come conturbanti ma anche rivoluzionari,  auto accrescitivi e motivazionali.

Partendo dal presupposto che non esiste un tempo giusto, ottimale, per mettersi al lavoro su un progetto, e, cioè, che “non è mai il momento giusto”,  è probabile che il punto di partenza, dove nasce l’intuizione, sia in noi dettato da un impulso all’autorealizzazione che può partire anche da un bisogno primario e poi attraversare il desiderio e venir scartato proprio in quanto il desiderio viene contemplato come effimero e quindi  di trascurabile valore.

Già Maslow nel 1962 metteva in evidenza quanto le persone ritenessero i bisogni legati agli stati motivazionali in generale, come irritanti, spiacevoli,”fastidiosi”, indesiderabili, vedendoli come una   minaccia alla propria integrità, e quanto cercassero generalmente di liberarsene, di negarli o di evitarli giungendo in alcuni casi alla rimozione.

Come sottolinea l’autore di Verso una psicologia dell’essere, c’è un dato che è importante tener presente: “Se definiamo l’accrescimento come l’insieme dei diversi processi che conducono la persona all’autorealizzazione definitiva, ciò corrisponde meglio al fatto osservato che essa ha luogo durante l’intera vita dell’individuo” e prosegue spiegando che:  “… I bisogni fondamentali e l’autorealizzazione non si contraddicono l’un l’altro… L’uno passa nell’altro e ne è un requisito preliminare e necessario.”

Diventa centrale, allora, la soddisfazione o la non soddisfazione, che abbiamo sperimentato nel passato e che ci guida nel presente verso la progettazione.  La soddisfazione realizzata diventa un punto cardine della motivazione attuale e dirige la progettazione includendo quella tensione che non sembrerà più così pericolosa e destabilizzante, alleandosi con essa, permettendo così di ribaltare una condizione fastidiosa in una condizione quasi piacevole e vitale.

Nel passato di ognuno c’è stato un momento di soddisfazione verso la realizzazione di qualcosa di estremamente vitale nella propria esistenza e ognuno ha una sua specificità e unicità che lo contraddistingue.

Questi istanti preziosi vanno rintracciati, riscoperti, di nuovo assunti, e non importa se gli ambiti di realizzazione ci appaiono differenti da quelli in cui intendiamo operare ora, è la capacità creativa specifica che genera resilienza e resistenza interiore.

E’ lì che dobbiamo andare per ritrovare la giusta motivazione.

SCEGLIAMOCI – Confinati in casa, riflettiamo per crescere

In famiglia, da soli, in coppia, con i bambini, in questa situazione drammatica di emergenza sanitaria ci ritroviamo a vivere nelle nostre case con una percezione differente rispetto a prima, come se ci incontrassimo per la prima volta con le nostre fragilità e paure e più tempo a disposizione per riflettere sulla nostra vita.

Può, questa, pur nella drammaticità della situazione, diventare una risorsa per scoprire qualcosa di più su noi stessi e sulle persone che amiamo.

Qualcosa emerge più di altre, il sentirsi incompresi dalle persone con cui viviamo o con cui ci sentiamo tramite l’aiuto della tecnologia che in questo momento di chiusura con l’esterno ci affianca e ci sostiene.

Nello stesso tempo, non comprendiamo gli altri, le loro richieste ci appaiono come pretese, il conflitto si mostra in tutta la sua potenza confusiva.

Che succede? come mai situazioni che prima non ci apparivano importanti ora mostrano il loro lato ombra?

Abbiamo spesso visioni troppo idealizzate sulle relazioni – così come verso parti di noi stessi – e se questo viene vissuto come qualcosa di magico, è vero anche che condanna i protagonisti della relazione a un continuo gioco di malintesi e delusioni dove le aspettative sono spesso sul comportamento che “dovrebbe” tener l’altro verso di noi generando giudizi, disillusioni, e dubbi che arrovellano la mente.

Scegliamo noi stessi quando i dubbi ci assalgono e la nostra capacità decisionale viene meno.

Scegliere noi stessi diventa così un atto coraggioso che ci darà la forza necessaria a dipanare il dubbio, che sia un dubbio sulla relazione o un dubbio che apre ad un conflitto profondo sul prendere posizione nella vita delle persone che amiamo.

Scegliendo noi stessi, rispettandoci, accogliendoci nella nostra confusione senza giudicarci, avendo pazienza per noi stessi in primis.

In questo modo manderemo all’altro un messaggio di grande responsabilità soggettiva e, come fosse un atto in sé, o una frase ad effetto, verrà percepito come una possibilità di espressione unica anche per l’altro che forse non aspetta che questo per tranquillizzarsi.

Vivere un rapporto interpersonale reale e non idealizzato comporta il tramonto di stereotipi culturali e generazionali che plasmano amaramente la nostra soggettività e ne diventano anche alibi.

Riflettere in modo sincero con noi stessi, con flessibilità e amorevolezza verso le nostre fragilità può diventare così un’opportunità simile ad un avventuroso viaggio verso la scoperta di nostre potenzialità mai neanche immaginate.

LO SPAZIO ANGUSTO: LA COPPIA CONFINATA dalla rassegnazione alla risorsa

Il confinamento nelle proprie abitazioni richiesto e attuato durante l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ridisegna equilibri consolidati che nel caso della coppia possono mettere duramente alla prova la sopportazione reciproca.

Ripercorrere i passaggi di incontro originario ci può, allora, aiutare a trovare lo “spazio d’uscita” per non vivere il confinamento casalingo come l’anticamera della fine dell’unione d’amore.

Quando la coppia si forma, le differenze individuali che contraddistinguono i due partner vengono percepite come punti di forza e base per una buona unione.

Molto spesso, però, nel tentativo di conciliare le due personalità in un progetto comune, i due partner lentamente perdono di vista proprio quello che, oltre l’attrazione fisica, li ha uniti.

Se subentra una crisi, ma anche un evento eccezionale come quello che la pandemia ci sta facendo attraversare, ritroviamo nei due partner un sentimento di rivendicazione per i propri spazi personali, per le proprie idee, per i propri valori ma anche verso le aspettative individuali sulla loro unione, come se fino ad allora si fossero sacrificati nell’esprimere sé stessi.

Lo spazio casalingo diventa improvvisamente uno spazio angusto, troppo piccolo – nella percezione dello spazio poco contano le dimensioni oggettive e gli spazi suddivisi – dove la privacy improvvisamente viene a mancare, dove ci si sente “costretti” a “condividere” pasti, riposo, tempo libero.

La coppia scopre di essere formata da due individui separati e compaiono, come uno shock, anche gusti diversi, preferenze differenti.

Si scopre qualcosa di nuovo: Io sono io e tu sei tu!

La comparsa delle differenze individuali nella coppia: genesi

Nell’esaltazione della prima fase d’unione, i due partner presentano all’altro solo l’aspetto migliore di sé aderendo anche ad un modello più accettabile socialmente.

Questa fase “fisiologica” nell’incontro tra i due partner può durare molto tempo, ci possono essere matrimoni impostati solo su questa prima fase grazie alla capacità istrionica del femminile e alla capacità camaleontica del maschile.

La suddivisione del lavoro aiuta a mantenere questa “distanza” tra i due. Una coppia così impostata difficilmente si arrenderà all’allargamento familiare che il concepimento dei figli comporta.

Una nuova opportunità

A poco a poco che la conoscenza tra i due va avanti, emergono anche i conflitti e/o i disagi personali che li affliggono individualmente e diventa sempre più difficile nasconderli all’altro ma anche a sé stessi.

Nel confinamento attuale, questo nuovo assetto può disorientare.

Improvvisamente l’altro si svela al partner come pieno di “difetti” o come “problematico”.

Questa nuova realtà, questa nuova “verità” della coppia, suggella spesso il “io ti salverò” che trascina i due nell’isolamento e nella frustrazione.

Ma, citando il grande romanziere Italo Calvino, “La conoscenza del prossimo ha questo di speciale, passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stessi”.

La coppia che riconosce il problema del cambiamento individuale come risorsa e non solo come risultato delle apparenti presentazioni della propria personalità individuale, sarà la coppia che riuscirà a ridefinirsi nel confinamento riuscendo a trovare  la giusta motivazione al cambiamento, comprendendo che forse quelle evidenti differenze individuali emerse nella crisi, potranno rafforzare e non indebolire la loro unione, imparando a modulare le emozioni da condividere con le emozioni da elaborare individualmente prima di incontrarsi con l’altro.

Lo spunto che qui si intende porre è di concentrarsi nell’osservazione dei seguenti aspetti:

  • focalizzare l’attenzione sulle false comunicazioni che si vengono a creare tra i due partner
  • concentrarsi su una o più sequenze di azione tra i due ripristinando la comunicazione diretta, non aggressiva, verbale, pacata, nel rispetto delle emozioni dell’altro e delle proprie
  • prediligere la base comune, riscoprendo il focus comune originario che diventa la bussola della nuova armonia.

Si può, allora, vivere nello stesso spazio abitativo senza tarpare le ali individuali, uniche e – si scopre, paradossalmente – amate fin dall’inizio dell’incontro originario.

STRESS ED EVENTI DI VITA: DALLA PERCEZIONE DI UN EVENTO COME STRESSANTE ALLA RISORSA DEL PENSIERO

La vasta tematica riguardante lo stress come risposta adattiva pone in evidenza le complesse relazioni che intercorrono fra il mondo esterno e la persona nella sua interazione mente-corpo nonché nella capacità della stessa di far fronte agli stimoli che possono alterare il suo stato di equilibrio.

Alcuni aspetti importanti inerenti lo stress e i modi di affrontarlo sono comuni a più persone, quello che differisce ed è unico per ogni tipo di personalità è il modo in cui un evento potenzialmente stressante viene interpretato dalla persona. Questo perché la diversa immagine e concezione della vita che ognuno ha, funge da modello nella decodificazione dello stimolo stressante rendendo la persona più o meno vulnerabile all’alterazione del proprio equilibrio psicofisico.

Dunque, riuscire a far fronte alle difficoltà che lo stress comporta è uno dei compiti più importanti per l’essere umano a partire dalla propria nascita, e nel corso della lotta per la sua sopravvivenza.

Nel tentativo costante di mantenere un equilibrio ottimale, dobbiamo mettere in conto che ogni evento che produce un cambiamento nel nostro modo di vivere determina una condizione di stress a cui segue un riadattamento nel nostro stile di vita.

L’assunzione di nuove responsabilità in persone giovani e adulte – come possono essere la fine degli esami, il diploma, la laurea, dal primo impiego lavorativo al cambio di mansione, la perdita momentanea del lavoro, il matrimonio, la separazione e il divorzio, la nascita di un figlio o la difficoltà a concepirne uno in modo naturale, un trasferimento in un paese diverso da quello dove si è cresciuti, la morte di una persona cara, importanti malattie succedutesi nel tempo – possono influire sull’equilibrio psicologico generando un livello di allarme che – secondo predisposizioni personali – può portare ad un aumento di attività volte al recupero delle proprie risorse interne così come ad una sorta di immobilismo parossistico e alla riacutizzazione di disagi psicologici come ansia generalizzata, attacchi di panico, pensiero dominante di tipo ossessivo, che intrappolano la persona sfinendola ancora di più e allontanandola dalla ricezione corretta delle proprie emozioni.

Alla sorgente di queste diverse risposte agli eventi di vita c’è l’assunto di base secondo il quale noi non avvertiamo alcun disagio fino a che non percepiamo che tra noi e l’ambiente si è alterato il delicato equilibrio che ci permette di interagire efficacemente con esso.

Come “pensiamo” l’ambiente, le richieste che esso ci pone e che mettono a dura prova le nostre risorse e la nostra capacità di farvi fronte, è una caratteristica cognitiva umana che ci dimostra come siano i nostri pensieri a determinare le nostre risposte allo stress.

La capacità di prevedere e controllare quello che succede è il primo fondamentale fattore che influenza la percezione di un evento come stressante ed è per questo che per alcune persone l’effetto sorpresa genera ansia e disequilibrio mentre per altre la valutazione della stessa situazione imprevista può divenire una sfida stimolante, comunque vitale.

In questa valutazione cognitiva è presente la convinzione che le circostanze possono tradire il nostro impegno certosino a costruirci una stabile solidità interiore, mentre quello che gli eventi di vita ci insegnano spesso in modo doloroso è che le circostanze contengono la possibilità di perdita.

Sappiamo quanto questo può essere vero se rileggendo nel ricordo un’esperienza passata, riconosciamo quanto ha inciso la nostra specifica e unica “lettura” personale dell’evento nel determinare la risposta all’esperienza che abbiamo vissuto.

Il passo successivo alla conoscenza di noi stessi sarà quello di rendersi consapevoli della nostra più grande risorsa: la capacità di pensare, di riflettere in modo critico sulle circostanze e sulla nostra modalità di risposta appresa dalle precedenti esperienze, fino ad allineare questo alla nostra esigenza di benessere psicofisico e provvedere al futuro considerando interventi di crescita personale e percorsi di tipo psicologico come la psicoterapia, come strumenti volti al rafforzamento interiore e non, come comunemente visti, come segno di debolezza o di poco carattere.

IL LABORATORIO SULLE FIABE: LA DRAMMATIZZAZIONE CHE AIUTA A FAR COINCIDERE PASSAGGI EVOLUTIVI E CRESCITA PSICOLOGICA. LA STORIA DI ADRIAN-POLLICINO

ABSTRACT

Il presente lavoro è il resoconto di un’esperienza svolta insieme a otto bambini riuniti in un Laboratorio sulle fiabe istituito dall’autrice nell’ambito di un’associazione culturale dedicata all’età evolutiva e alla psicologia dell’infanzia. La peculiarità di questa esperienza è stata quella di poter verificare alcune ipotesi sul rapporto tra drammatizzazione e crescita psicologica su cui l’autrice indaga da diversi anni, e che si sono rivelate fondate nel corso degli incontri e delle drammatizzazioni messe in scena dai bambini.

In particolare, viene qui riportato il caso di Adrian, un bambino di 9 anni, di nazionalità polacca, adottato da due anni qui in Italia, con notevoli problemi di adattamento dovuti a uno stato di prostrazione prolungatosi oltre i termini fisiologici previsti dalla sua nuova condizione. La vicenda del piccolo Adrian e della sua scelta di mettere in scena la fiaba di Pollicino ha coinvolto il gruppo di bambini in un’avventura che avrebbe dato a ciascuno di loro la possibilità di trovare una nuova motivazione al cambiamento.

In questo contesto, infatti, la capacità di accettare il cambiamento rappresenta un passaggio evolutivo fondamentale nella vita del bambino: il coraggio di cambiare fa esso stesso parte di un’evoluzione più profonda, cominciata con l’inizio della terapia, e che abbraccia la capacità di far fronte attivamente e creativamente alle inevitabili iniziazioni della vita.

La tesi di questo scritto è che la drammatizzazione possa facilitare questo percorso, aiutando i bambini a far fronte ai cambiamenti e, mettendo in scena su un piano simbolico e ludico i propri bivi esistenziali, a elaborare una strategia funzionale e costruttiva. Viene, inoltre, sottolineata la capacità dei bambini di sapersi accogliere e accettare tra loro, se posti nelle giuste condizioni ambientali, evitando disposizioni aggressive e ostacolanti il rapporto con l’altro, e riuscendo a negoziare sui conflitti. Tutto ciò è possibile se i bambini sono resi liberi da modelli negativi, imposti talvolta anche solo a livello subliminale e inconscio. Con questa loro intrinseca capacità donativa è possibile collaborare terapeuticamente per trasformare e trasformarsi.

In this article the author gives an account of a cycle of psychotherapy session organized in the form of a “Fairy Tale Dramatization Laboratory” conceived by the author, which in this case involved the partecipation of a group of 8 children. In particular, the article analyzes the remarkable experience of a child who chose the story of “Tom Thumb” to dramatize his difficult existential and psychological situation. In addition, attention is drawn to the children’s ability to welcome and accept each other, to avoid aggressive attitudes which interfere with healthy interpersonal relations, and to negotiate conflict resolution, when they are freed of the models imposed both at a conscious and unconscoius level by adults. Working in this way with their intrinsic generosity, it is possibile to work together in a truly transforming therapeutic experience.

CHI DESIDERASSE CONSULTARE L’ARTICOLO INTEGRALE, PUO’ CONTATTARE L’AUTRICE VIA MAIL A: anna.mostacci@gmail.com

ALLENAMENTO ALL’ASCOLTO EMPATICO

“Potrebbe essere proficuo staccarsi dall’abitudine di star ad ascoltare soltanto quello che risulta subito chiaro.” – Martin Heidegger –

ABSTRACT
La nostra relazione con l’altro è caratterizzata da una comunicazione vicendevole basata sull’esprimere il proprio mondo e i propri bisogni e sull’ascolto della visione del mondo e dei bisogni dell’altro. La percezione e la conoscenza che più ci appassiona nella nostra vita è quella degli altri, essa diventa da subito il nostro imprinting vitale nel calore e nel rispecchiamento visivo amoroso, come nell’udire la voce soffusa e limpida della madre, di colei che si presenta nel nostro nuovo universo sconosciuto e ci guida alla sua scoperta.

L’esperienza comunicativa verbale, così come il prestare ascolto e comprendere gli altri, rientrano a tal punto nella nostra vita quotidiana che può accadere di sottovalutarne il valore; mentre basterebbe soffermarsi a riflettere su quanta importanza riveste per noi riuscire a comunicare i nostri bisogni e i nostri desideri – dai più semplici a i più complessi – e far sì che gli altri ci aiutino a soddisfarli e a realizzarli.

Per buona parte della nostra vita, dunque, rincorreremo il nostro impegno con gli altri nel tentativo di comprenderci e accordarci l’un l’altro in un coinvolgimento comunicativo sempre più vitale. Ora vedremo passo passo cosa comporta il prestare ascolto quando ciò che noi abbiamo espresso verbalmente è una difficoltà, un dolore, qualcosa che ci tormenta emotivamente. Partendo da noi stessi e dal nostro bisogno di essere emozionalmente capiti, possiamo allenarci ad un ascolto empatico dell’altro significativo e, nello stesso tempo, comprenderemo maggiormente noi stessi in quelle fasi caotiche interiori dove il pensiero razionale viene meno.

DIVERSI STATI MENTALI
Nell’intervenire e nel prestare ascolto, noi attiviamo contemporaneamente differenti stati mentali legati ad emozioni diversificate, e questo è uno dei motivi per cui alcune comunicazioni riescono e altre no. Se siamo in grado di riconoscere come ci sentiamo nel nostro stato psicofisiologico attuale senza esserne sopraffatti, possiamo coinvolgerci e coinvolgere l’altro in una verbalizzazione emozionale centrata sulla disponibilità e sull’attenzione di ciò che viene detto oltre le parole, nell’accoglienza non giudicante del messaggio.

RICONOSCIAMO IN NOI IL NOSTRO STATO D’ANIMO
Se siamo preoccupati per qualcosa di importante e ne vogliamo parlare, la nostra capacità di ascoltare diminuisce sensibilmente: eppure sentiamo il bisogno che l’altro ci rassicuri, ci consigli. Domandiamoci, allora, mentre l’altro ci parla, cosa ci vuole comunicare di suo senza necessariamente intendere il suo vissuto come un attacco minaccioso a noi, e quindi senza assumere una modalità difensiva che per forza di cose blocca il flusso empatico.

RICONOSCIAMO NELL’ALTRO IL SUO STATO D’ANIMO
Rispondere, pretendere di farci capire, dall’altro che sta tentando di esprimere dei sentimenti forti emozionalmente, lo spingerà ancora di più a ricercare un riconoscimento delle sue emozioni. Volgiamo, dunque, la nostra attenzione al tono, al ritmo, al modo, al come vengono espressi i contenuti.

Dunque, la disponibilità e l’attenzione all’altro genera un circolo virtuoso nella relazione ma solo se siamo i primi a rapportarci con rispetto e ascolto emozionale di noi stessi. Se viviamo nell’attesa magica che sia l’altro a capire cosa vogliamo comunicare, cosa vogliamo dire, che sia l’altro ad amarci incondizionatamente mentre siamo sconosciuti a noi stessi, la comunicazione subirà disfatte e incomprensioni.

Questo mio contributo è rivolto alle relazioni di coppia, agli amici che non si comprendono, ai genitori che “non capiscono” cosa vogliono dire i loro figli, a tutti coloro che desiderano accrescere la loro capacità di comunicare più chiaramente con gli altri e che desiderano comprendere loro stessi nel profondo.