BUONE PRASSI E VALIDITA’ DELLA PSICOTERAPIA

La psicoterapia è uno strumento efficace e valido, basato su buone prassi condivise per il sostegno e la cura psicologica della persona.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948) definisce la salute come: “Lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, e questa definizione risponde alla constatazione che la salute, per l’uomo del terzo millennio, diventa correlata sia allo stile di vita sia ad una  armoniosa crescita personale e sociale.

Diventa dunque doveroso per gli operatori della salute interagire attraverso un percorso comune di acquisizioni, progetti condivisi e esperienze affinché la comprensione dei bisogni della persona nella sua complessità si esplichi in pratiche di cura sempre più significative ed ottimali.

L’attivazione di interventi integrati diventa, quindi, la risposta a una domanda di salute più complessa e sempre più orientata all’accoglienza di nuove concezioni e aperture nell’umano sentire e percepire che finalmente soddisfino il bisogno di ben-essere nelle persone.

Di fronte ai continui mutamenti sociali, si rende indispensabile l’interpretazione tempestiva del cambiamento, individuando le risorse in atto e promuovendo le nuove che necessariamente saranno orientate verso la serenità relazionale.

Nell’innovazione si rende, dunque, indispensabile rivedere e mettere a confronto i sistemi di riferimento di molte discipline. Così, il concetto di “buone prassi” torna alla ribalta con nuove integrazioni strutturali.

Si definiscono “buone prassi“ quelle linee guida da condividere e applicare in un ambito specifico. Esse sono il frutto di una ricerca congiunta che avvalori l’esperienza in tale ambito; una volta elaborate, queste linee guida diventano garanzia di trasparenza e affidabilità rispetto all’utilizzo di una qualsivoglia tecnica attinente all’ambito stesso della ricerca.

Inoltre, le ”buone prassi” possono definirsi tali se presentano una elevata  flessibilità progettuale e una stretta prossimità ai bisogni sociali, così come la presenza di capacità innovative sia in senso organizzativo che culturale, con forti connotazioni di riproducibilità e efficacia.

Si riscontrano, comunque, delle costanti, e su queste la ricerca pone l’attenzione verso la condivisione dell’accezione di “buone prassi”. Esse sono: da un lato, il riferimento, diretto o indiretto, alla metodologia del miglioramento continuo della qualità; e dall’altro il riferimento alle evidenze scientifiche – dove esse siano presenti (Tozzi et.al.,2011).

Per la sicurezza sanitaria, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta approntando protocolli incentrati sui progetti di prevenzione, educazione e soluzione concreta derivanti da esperienze basate su standard di qualità e sicurezza per il paziente, tenendo presente che: “Una pratica più sicura può anche essere descritta come una raccolta di numerose pratiche individuali che implicano decisioni e cambiamenti”, come spiega Woodwar Suzette, Direttore della Patient Safety Strategy presso la National Patient Safety Agency nel Regno Unito.

Il dibattito è aperto e critico e ha come punto di riferimento la necessità di ricreare indicatori specifici di buone prassi da monitorare nel tempo.

Il tema della sicurezza apre le porte alla grande problematica dell’efficacia di metodi, strategie, tecniche e cure ampiamente testate anche nel campo del mentale, ed entreremo ora nel merito specifico di una delle buone prassi più raccomandata a livello internazionale per la cura di molti disturbi psicologici: la Psicoterapia.

Prima di addentrarci nell’argomento, vorrei porre l’attenzione sul termine “è raccomandata” con alcune considerazioni etiche ed esempi. Quando ci rivolgiamo al nostro medico per ricevere una diagnosi e poi la cura, non mettiamo in discussione l’una o l’altra né lo sentiremo esprimersi in termini di “forse” o “è consigliato” o “è opportuno”, ma piuttosto lo percepiremo sicuro e perentorio e nei termini e nelle azioni.

La comunicazione di determinati termini, infatti, rende l’intenzione e ne determina l’azione; una frase che conterrà la parola “deve” ci rimanda all’obbligatorietà senza mezzi termini, così come una frase che contiene “dovrebbe” indica un requisito raccomandato e una frase che contiene “opportuno” preannuncia un’azione facoltativa.

Nella miglior pratica clinica tutti gli sforzi puntano a rendere consapevole il paziente di quello che sta accadendo, del perché della scelta di quella particolare terapia e quali risultati sono attesi. La parola sicura del medico è in un certo senso già parte della cura; simbolicamente, proprio il “camice bianco” evoca fiducia e speranza.

Dunque, uno dei motivi per cui ci affidiamo al nostro medico e torniamo a lui è la sua sicurezza nell’evidenza dei fatti, e questo rende già un servigio alla cura proprio in linea con l’ormai assodato presupposto che qualunque cura si potenzia nel rapporto col medico. L’insicurezza che denota il paziente sofferente e preoccupato per la sua salute viene così colmata e placata dalla sicura professionalità del medico e la via della guarigione diventa la nuova realtà.

In ambito psicologico, l’individuo ideale è e rimane un individuo indipendente, libero, autonomo nel suo agire, diverso nella sua unicità, che improvvisamente vede sfaldarsi il suo equilibrio per dei capricci della mente che lo rendono affettivamente infantile e fragile e che vorrebbe trovare una soluzione “medica” al disagio e ai disturbi inquietanti che lo sovrastano. 

Quando la persona giunge dallo psicologo clinico si troverà di fronte ad un paradosso solo apparentemente linguistico: non troverà la stessa perentorietà rassicurante del suo medico e le si chiederà di aprirsi ad una visione diversa del suo disagio, per affrontare una relazione umana che ridisegnerà le sue priorità di crescita personale e il suo benessere.

Questo paradosso non è sempre compreso e pone degli interrogativi. L’interesse destatosi nella ricerca psicoterapeutica negli ultimi quindici anni tende a rendere la psicoterapia una cura compresa e non criptica, e, stando al passo con i tempi, provvede a dimostrarne l’efficacia. Finalmente iniziano a essere di dominio pubblico i sorprendenti risultati di ricerche congiunte in questo campo.

Si è dimostrato che la psicoterapia apporta significativi cambiamenti nell’attività funzionale cerebrale dei pazienti e che tali modificazioni sono strettamente correlate al miglioramento clinico. Tali cambiamenti, inoltre, riguardano l’attività funzionale delle aree sia corticali, sia sottocorticali implicate nella specifica patologia studiata e non in altre aree (Cloninger, Svarik & Przybeck, 2006).

Così come riveste interesse la scoperta che sia la psicoterapia che il farmaco sono entrambi efficaci e in parte sovrapponibili nella cura delle diverse patologie psichiatriche, in quanto genererebbero entrambi un miglioramento clinico modificando l’attività neuronale, spesso delle medesime aree del cervello, ed inducendo anche cambiamenti nella stessa direzione di alcuni parametri biologici (Migone, 2009).

Vi è inoltre la conferma scientifica che i miglioramenti complessivi – dal sintomo alla qualità della vita e alla soddisfazione personale – dei pazienti trattati con psicoterapia sono dell’80% più durevoli in confronto a quelle persone che, in presenza degli stessi disturbi psicologici, non si sottopongono a cure psicoterapeutiche (Lambert et al.,2002).

A prescindere dagli approcci impiegati e dalla loro validazione, è necessario tener presente che gli orientamenti psicoterapeutici adottati nella pratica clinica sono molteplici e per ognuno di essi vi sono prove di efficacia di diversa natura, come la qualità della relazione terapeutica (Grasso, 2010) e l’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002) nelle psicoterapie psicodinamiche.

Come a tal riguardo afferma Fonagy: ”Non è tanto importante La ricerca quanto che tipo di ricerca – clinica, concettuale, storica, empirica – capace di arricchire le conoscenze psicoanalitiche e sostenere il lavoro clinico” (Fonagy, 1999, corsivo mio), in quanto la psicanalisi ottiene risultati simili alle altre psicoterapie, e senz’altro produce gli stessi cambiamenti strutturali nel funzionamento della personalità (Ortu, 2007).

Nei limiti di questo contributo, la panoramica esposta rileva una contemporaneità di questo straordinario metodo di cura per i disturbi mentali che denota anche l’aggiornamento culturale costante integrato con le diverse realtà globali.

Vorrei concludere con una citazione di Abraham Maslow che a mio avviso trovo molto attuale e che ci può aiutare a non perdere il senso del nostro lavoro immersi come siamo nel marasma di continui mutamenti  globali spesso non congeniali con la nostra storia o con le nostre aspettative di vita. Maslow dice:

“Che cos’è psicopatologico? Tutto ciò che disturba o impedisce l’autorealizzazione. Che cos’è la psicoterapia ed a che cosa serve? Si tratta di mezzi che aiutano a ristabilire la persona sulla via dell’autorealizzazione e dello sviluppo, lungo la linea indicata dalla natura interiore.”
                                                                       


QUANDO LE EMOZIONI POSITIVE ALLEVIANO LE INFIAMMAZIONI NELL’ORGANISMO

Un recente studio svolto da un gruppo di ricercatori statunitensi ha messo in luce come siano importanti le modalità con cui rispondiamo alle situazioni stressanti che ci capitano nella vita quotidiana. In particolare, i ricercatori sono giunti alla conclusione che avere un atteggiamento positivo anche nelle difficoltà aiuta non solo a prendere con più leggerezza i problemi più o meno grandi che la vita ci presenta, ma anche a ridurre i livelli di infiammazione presenti nell’organismo. La ricerca ha coinvolto un campione di persone a cui è stato chiesto di compilare un diario giornaliero per otto giorni consecutivi e che doveva includere le situazioni di stress quotidiano – problemi in famiglia, sul lavoro, in occasioni sociali o di studio con altri – che si presentavano di volta in volta, e le rispettive reazioni emotive a questi eventi.

Questi dati sono stati incrociati con quelli relativi ai livelli di infiammazione presenti nell’organismo al momento della ricerca e raccolti mediante l’analisi di campioni di sangue appositamente prelevati e rilevabili tramite la ricerca di specifici marker infiammatori (nello specifico l’interleuchina 6 e la proteina C reattiva). Dal risultato di questo incrocio è emerso come le persone che reagivano più negativamente allo stress avevano livelli di infiammazione maggiori, mentre coloro che riuscivano ad affrontare le problematiche senza abbattersi troppo avevano livelli di infiammazione inferiori. Nello specifico, dallo studio è emerso come le donne siano particolarmente a rischio di sviluppare alti livelli di infiammazione se non sono in grado di affrontare gli eventi stressanti con un atteggiamento positivo.

RIFLESSIONI PRATICHE

Come ci può aiutare questo studio nella comprensione delle nostre reazioni?

Che cosa significa attuare un atteggiamento positivo di fronte a situazioni spiacevoli?

Se partiamo dall’ascolto delle nostre esigenze personali anche in momenti relazionali complessi, possiamo vedere come le nostre reazioni siano difensive e volte alla sfida della sopravvivenza, cosi come rovesciamenti di situazioni conosciute portano a crisi psicologiche che impongono domande di riequilibrio. La difficoltà ad adattarsi alla resa – come se il cambiamento presupponesse una lotta – può far restare la persona ferma sulla propria sofferenza dell’ingiusto destino. Coinvolti in relazioni insoddisfacenti, basate su bisogni disfunzionali, si iniziano a sperimentare anche sintomi nuovi e/o malattie che convogliano l’umore in reazioni emozionali con connotazioni conflittuali e disturbanti.

Assumere un atteggiamento positivo e, dunque, mettere in moto in noi stessi emozioni positive che richiamano il rilascio di endorfine, genera uno stato psicofisico di armonizzazione e benessere che aiuta nella guarigione e anche nel vedere complessivamente da una diversa angolazione il nostro dispiacere. L’essenziale è non negare che ci siano problemi, ma accogliere il problema con la priorità di risolverlo; facendo si che proprio questa accettazione – che comprende la nostra assunzione dei limiti – apra alla consapevolezza che disponiamo anche di risorse emotive che rinforzano lo stato dell’umore, invece di indebolirlo.

Le circostanze non determinano automaticamente l’intensità delle nostre sensazioni – che rappresentano l’essenza delle emozioni –, piuttosto è il modo in cui interpretiamo e pensiamo gli eventi a provocare i nostri stati emotivi che sono sempre accompagnati da modificazioni fisiologiche e che trovano la massima espressione nel comportamento emotivo.

UN ESERCIZIO

L’essere umano è in grado di richiamare a sé con l’immaginazione emozioni piacevoli legate anche a situazioni già vissute e questo è un ottimo esercizio introspettivo verso l’approfondimento della propria personalità, ed è utile e rigenerante in condizioni di difficoltà emotive e/o di dolore fisico per modificare attivamente lo stato fisiologico in cui ci troviamo e ritrovare quella serenità di base che ci porta a riflettere in modo migliore e, dunque, a rispondere in modo più equilibrato agli eventi nel rispetto di noi stessi e degli altri.

STRESS ED EVENTI DI VITA: DALLA PERCEZIONE DI UN EVENTO COME STRESSANTE ALLA RISORSA DEL PENSIERO

La vasta tematica riguardante lo stress come risposta adattiva pone in evidenza le complesse relazioni che intercorrono fra il mondo esterno e la persona nella sua interazione mente-corpo nonché nella capacità della stessa di far fronte agli stimoli che possono alterare il suo stato di equilibrio.

Alcuni aspetti importanti inerenti lo stress e i modi di affrontarlo sono comuni a più persone, quello che differisce ed è unico per ogni tipo di personalità è il modo in cui un evento potenzialmente stressante viene interpretato dalla persona. Questo perché la diversa immagine e concezione della vita che ognuno ha, funge da modello nella decodificazione dello stimolo stressante rendendo la persona più o meno vulnerabile all’alterazione del proprio equilibrio psicofisico.

Dunque, riuscire a far fronte alle difficoltà che lo stress comporta è uno dei compiti più importanti per l’essere umano a partire dalla propria nascita, e nel corso della lotta per la sua sopravvivenza.

Nel tentativo costante di mantenere un equilibrio ottimale, dobbiamo mettere in conto che ogni evento che produce un cambiamento nel nostro modo di vivere determina una condizione di stress a cui segue un riadattamento nel nostro stile di vita.

L’assunzione di nuove responsabilità in persone giovani e adulte – come possono essere la fine degli esami, il diploma, la laurea, dal primo impiego lavorativo al cambio di mansione, la perdita momentanea del lavoro, il matrimonio, la separazione e il divorzio, la nascita di un figlio o la difficoltà a concepirne uno in modo naturale, un trasferimento in un paese diverso da quello dove si è cresciuti, la morte di una persona cara, importanti malattie succedutesi nel tempo – possono influire sull’equilibrio psicologico generando un livello di allarme che – secondo predisposizioni personali – può portare ad un aumento di attività volte al recupero delle proprie risorse interne così come ad una sorta di immobilismo parossistico e alla riacutizzazione di disagi psicologici come ansia generalizzata, attacchi di panico, pensiero dominante di tipo ossessivo, che intrappolano la persona sfinendola ancora di più e allontanandola dalla ricezione corretta delle proprie emozioni.

Alla sorgente di queste diverse risposte agli eventi di vita c’è l’assunto di base secondo il quale noi non avvertiamo alcun disagio fino a che non percepiamo che tra noi e l’ambiente si è alterato il delicato equilibrio che ci permette di interagire efficacemente con esso.

Come “pensiamo” l’ambiente, le richieste che esso ci pone e che mettono a dura prova le nostre risorse e la nostra capacità di farvi fronte, è una caratteristica cognitiva umana che ci dimostra come siano i nostri pensieri a determinare le nostre risposte allo stress.

La capacità di prevedere e controllare quello che succede è il primo fondamentale fattore che influenza la percezione di un evento come stressante ed è per questo che per alcune persone l’effetto sorpresa genera ansia e disequilibrio mentre per altre la valutazione della stessa situazione imprevista può divenire una sfida stimolante, comunque vitale.

In questa valutazione cognitiva è presente la convinzione che le circostanze possono tradire il nostro impegno certosino a costruirci una stabile solidità interiore, mentre quello che gli eventi di vita ci insegnano spesso in modo doloroso è che le circostanze contengono la possibilità di perdita.

Sappiamo quanto questo può essere vero se rileggendo nel ricordo un’esperienza passata, riconosciamo quanto ha inciso la nostra specifica e unica “lettura” personale dell’evento nel determinare la risposta all’esperienza che abbiamo vissuto.

Il passo successivo alla conoscenza di noi stessi sarà quello di rendersi consapevoli della nostra più grande risorsa: la capacità di pensare, di riflettere in modo critico sulle circostanze e sulla nostra modalità di risposta appresa dalle precedenti esperienze, fino ad allineare questo alla nostra esigenza di benessere psicofisico e provvedere al futuro considerando interventi di crescita personale e percorsi di tipo psicologico come la psicoterapia, come strumenti volti al rafforzamento interiore e non, come comunemente visti, come segno di debolezza o di poco carattere.

LA PELLE COME SPECCHIO DELLE EMOZIONI NON RICONOSCIUTE: Significati psicosomatici

autunno

Sulla pelle ritroviamo scritta la nostra storia così come la pelle è il nostro confine, essa ci racchiude, ci integra, ci delimita nella nostra forma fisica. La possiamo nascondere agli occhi e al tatto degli altri ma solo in parte. La possiamo mostrare, svelandoci agli occhi di noi stessi e degli altri, ma non solo in parte perché la pelle può tradire il nostro vissuto interiore.

La pelle rappresenta un confine labile tra noi e gli altri ed è la prima parte di noi stessi ad essere colpita… o amata. Sulla pelle i segni restano ben visibili o diventare un’ombra sensibile al tatto che ci ricorda qualcosa che forse vorremmo dimenticare. Questa è la pelle come corazza che sfida l’altro e il mondo con cicatrici, sfoghi, piccole piaghe e spesse chiazze che parlano al nostro posto, raccontandoci senza parole.

Possiamo comprendere quanto sia importante per il nostro equilibrio psicofisico la salute della nostra pelle partendo dalle origini del nostro cammino fin dal concepimento. Le cellule che rivestono primitivamente l’embrione, in parte formano il cervello e il resto del nostro sistema nervoso, e in parte rimangono sulla superficie dell’embrione fino alla fine del suo sviluppo per formare la cute. Dunque, così come esistono diverse patologie dove due organi sono contemporaneamente malati perché interconnessi, la pelle è soprattutto un importante organo di difesa capace di strutturarsi a seconda delle esigenze dell’individuo diventando una vera e propria spia del nostro stato di salute che dobbiamo imparare ad ascoltare e a leggere con attenzione amorevole.

Accettare che esiste il legame mente-corpo in quanto connessione inscindibile primaria, significa comprendere e dare una lettura nuova, psicosomatica dunque, a disturbi che abbiamo sempre e solo diviso, scisso, perché più comodi da controllare, negando e sottovalutando quanto la mente condizioni il corpo, ne diriga le alterazioni e la guarigione e quanto il corpo, se ferito, offeso, ritrovi nella mente significati di resa e disperazione che si possono alimentare fino a giungere alla ripetizione cognitiva di schemi psicologici non adattivi.

Se per alcune malattie psicosomatiche può sfuggire il senso di connessione tra la mente e il corpo, nel caso dei disturbi cutanei appare più evidente il senso in quanto è proprio sulla pelle che i conflitti emotivi vengono “scaricati”.

Chi soffre di disturbi cutanei fatica a esternare e a condividere le proprie emozioni, le tiene prigioniere nello scrigno segreto della latenza in quanto scomode o considerate negative e quindi cattive. Si racchiudono, così, conflitti prevalentemente relazionali, dove la visione del mondo del soggetto include il sintomo come veicolo di accettazione/rifiuto dell’altro e di se stessi.

Il dolore che provoca la rabbia inconfessata, il risentimento, la recriminazione interiorizzata, vengono sfogati sulla pelle. Le reazioni cutanee pruriginose di cui non sono rintracciabili cause tossiche ambientali e/o alimentari sono, così, riconducibili ad una tossicità autoprodotta dal soggetto che nel tentativo di controllare il problema che lo fa soffrire, deve  pur sempre mantenere il suo equilibrio psicofisico di base e per ripristinarlo in caso di alterazione, tenta a modo suo di condividerlo all’esterno.

In un continuum che comprende due estremi, soprattutto in soggetti iper-controllati dove la meticolosità e la razionalità prevalgono sull’espressione immediata delle emozioni, l’intenso trasporto come l’eccitazione ansiosa, vengono veicolate in prima istanza nell’esplosione di attività di spostamento come il prurito dove l’atto di grattarsi diventa la comunicazione emozionale fino a quel momento inibita.

Il prurito diventa un modo di grattarsi via un persecutore interno – fantasmatico o reale non ha più importanza – che non dà tregua. Ma il prurito aspecifico incontrollabile può essere anche la difesa a un cambiamento di pelle, a un passo esistenziale verso un’identità nuova, alla scelta della propria creatività, all’assertività.

Il disturbo cutaneo diventa, così, simbolo e stigma dove ciò che viene mostrato all’altro è l’unico modo che il soggetto sofferente ha di sentire in sé un sentimento esistenziale e di cercare un sentimento identitario che in qualche modo lo porti ad accettare l’espressione dei suoi contenuti emotivi, elemosinando un contatto attraverso la malattia, trattenendo l’espressione di sé per paura di nuovi rifiuti.

La paura di un rifiuto ormai lontano nel tempo, si ripropone e diventa difesa estrema, corazza, in una disperazione che oscilla tra il desiderio di fondersi con l’altro e la paura di perdere i propri confini, in un’identità dipendente dall’altro e dalle reazioni dell’altro. La pelle si ispessisce e la fantasia è di essere trasparenti.

Il percorso psicoterapeutico si può inserire in questo movimento mettendo “a nudo” le fantasie aggressive frutto di un rifiuto “a pelle” subito in passato, alimentando un senso di identità che si sente fragile, rinforzando un soggetto “trasparente” e invaso. Attraverso la relazione terapeutica, perché il conflitto è relazionale – è un conflitto che nasce nel gruppo umano con le sue paure e le sue regole –  e dal rapporto con l’altro (il terapeuta) riceverà la parola alle emozioni e l’accettazione del rischio relazionale.

La pelle si trasforma come si trasforma la persona affrontando i passaggi evolutivi e il rifiuto passato può diventare la spinta, il motore di un rinnovamento, verso l’accettazione di se stessi e delle proprie contraddizioni e l’accettazione dell’altro con i suoi limiti, le sue paure, i suoi desideri di contatto e di amore.

IL LABORATORIO SULLE FIABE: LA DRAMMATIZZAZIONE CHE AIUTA A FAR COINCIDERE PASSAGGI EVOLUTIVI E CRESCITA PSICOLOGICA. LA STORIA DI ADRIAN-POLLICINO

ABSTRACT

Il presente lavoro è il resoconto di un’esperienza svolta insieme a otto bambini riuniti in un Laboratorio sulle fiabe istituito dall’autrice nell’ambito di un’associazione culturale dedicata all’età evolutiva e alla psicologia dell’infanzia. La peculiarità di questa esperienza è stata quella di poter verificare alcune ipotesi sul rapporto tra drammatizzazione e crescita psicologica su cui l’autrice indaga da diversi anni, e che si sono rivelate fondate nel corso degli incontri e delle drammatizzazioni messe in scena dai bambini.

In particolare, viene qui riportato il caso di Adrian, un bambino di 9 anni, di nazionalità polacca, adottato da due anni qui in Italia, con notevoli problemi di adattamento dovuti a uno stato di prostrazione prolungatosi oltre i termini fisiologici previsti dalla sua nuova condizione. La vicenda del piccolo Adrian e della sua scelta di mettere in scena la fiaba di Pollicino ha coinvolto il gruppo di bambini in un’avventura che avrebbe dato a ciascuno di loro la possibilità di trovare una nuova motivazione al cambiamento.

In questo contesto, infatti, la capacità di accettare il cambiamento rappresenta un passaggio evolutivo fondamentale nella vita del bambino: il coraggio di cambiare fa esso stesso parte di un’evoluzione più profonda, cominciata con l’inizio della terapia, e che abbraccia la capacità di far fronte attivamente e creativamente alle inevitabili iniziazioni della vita.

La tesi di questo scritto è che la drammatizzazione possa facilitare questo percorso, aiutando i bambini a far fronte ai cambiamenti e, mettendo in scena su un piano simbolico e ludico i propri bivi esistenziali, a elaborare una strategia funzionale e costruttiva. Viene, inoltre, sottolineata la capacità dei bambini di sapersi accogliere e accettare tra loro, se posti nelle giuste condizioni ambientali, evitando disposizioni aggressive e ostacolanti il rapporto con l’altro, e riuscendo a negoziare sui conflitti. Tutto ciò è possibile se i bambini sono resi liberi da modelli negativi, imposti talvolta anche solo a livello subliminale e inconscio. Con questa loro intrinseca capacità donativa è possibile collaborare terapeuticamente per trasformare e trasformarsi.

In this article the author gives an account of a cycle of psychotherapy session organized in the form of a “Fairy Tale Dramatization Laboratory” conceived by the author, which in this case involved the partecipation of a group of 8 children. In particular, the article analyzes the remarkable experience of a child who chose the story of “Tom Thumb” to dramatize his difficult existential and psychological situation. In addition, attention is drawn to the children’s ability to welcome and accept each other, to avoid aggressive attitudes which interfere with healthy interpersonal relations, and to negotiate conflict resolution, when they are freed of the models imposed both at a conscious and unconscoius level by adults. Working in this way with their intrinsic generosity, it is possibile to work together in a truly transforming therapeutic experience.

CHI DESIDERASSE CONSULTARE L’ARTICOLO INTEGRALE, PUO’ CONTATTARE L’AUTRICE VIA MAIL A: anna.mostacci@gmail.com

ALLENAMENTO ALL’ASCOLTO EMPATICO

“Potrebbe essere proficuo staccarsi dall’abitudine di star ad ascoltare soltanto quello che risulta subito chiaro.” – Martin Heidegger –

ABSTRACT
La nostra relazione con l’altro è caratterizzata da una comunicazione vicendevole basata sull’esprimere il proprio mondo e i propri bisogni e sull’ascolto della visione del mondo e dei bisogni dell’altro. La percezione e la conoscenza che più ci appassiona nella nostra vita è quella degli altri, essa diventa da subito il nostro imprinting vitale nel calore e nel rispecchiamento visivo amoroso, come nell’udire la voce soffusa e limpida della madre, di colei che si presenta nel nostro nuovo universo sconosciuto e ci guida alla sua scoperta.

L’esperienza comunicativa verbale, così come il prestare ascolto e comprendere gli altri, rientrano a tal punto nella nostra vita quotidiana che può accadere di sottovalutarne il valore; mentre basterebbe soffermarsi a riflettere su quanta importanza riveste per noi riuscire a comunicare i nostri bisogni e i nostri desideri – dai più semplici a i più complessi – e far sì che gli altri ci aiutino a soddisfarli e a realizzarli.

Per buona parte della nostra vita, dunque, rincorreremo il nostro impegno con gli altri nel tentativo di comprenderci e accordarci l’un l’altro in un coinvolgimento comunicativo sempre più vitale. Ora vedremo passo passo cosa comporta il prestare ascolto quando ciò che noi abbiamo espresso verbalmente è una difficoltà, un dolore, qualcosa che ci tormenta emotivamente. Partendo da noi stessi e dal nostro bisogno di essere emozionalmente capiti, possiamo allenarci ad un ascolto empatico dell’altro significativo e, nello stesso tempo, comprenderemo maggiormente noi stessi in quelle fasi caotiche interiori dove il pensiero razionale viene meno.

DIVERSI STATI MENTALI
Nell’intervenire e nel prestare ascolto, noi attiviamo contemporaneamente differenti stati mentali legati ad emozioni diversificate, e questo è uno dei motivi per cui alcune comunicazioni riescono e altre no. Se siamo in grado di riconoscere come ci sentiamo nel nostro stato psicofisiologico attuale senza esserne sopraffatti, possiamo coinvolgerci e coinvolgere l’altro in una verbalizzazione emozionale centrata sulla disponibilità e sull’attenzione di ciò che viene detto oltre le parole, nell’accoglienza non giudicante del messaggio.

RICONOSCIAMO IN NOI IL NOSTRO STATO D’ANIMO
Se siamo preoccupati per qualcosa di importante e ne vogliamo parlare, la nostra capacità di ascoltare diminuisce sensibilmente: eppure sentiamo il bisogno che l’altro ci rassicuri, ci consigli. Domandiamoci, allora, mentre l’altro ci parla, cosa ci vuole comunicare di suo senza necessariamente intendere il suo vissuto come un attacco minaccioso a noi, e quindi senza assumere una modalità difensiva che per forza di cose blocca il flusso empatico.

RICONOSCIAMO NELL’ALTRO IL SUO STATO D’ANIMO
Rispondere, pretendere di farci capire, dall’altro che sta tentando di esprimere dei sentimenti forti emozionalmente, lo spingerà ancora di più a ricercare un riconoscimento delle sue emozioni. Volgiamo, dunque, la nostra attenzione al tono, al ritmo, al modo, al come vengono espressi i contenuti.

Dunque, la disponibilità e l’attenzione all’altro genera un circolo virtuoso nella relazione ma solo se siamo i primi a rapportarci con rispetto e ascolto emozionale di noi stessi. Se viviamo nell’attesa magica che sia l’altro a capire cosa vogliamo comunicare, cosa vogliamo dire, che sia l’altro ad amarci incondizionatamente mentre siamo sconosciuti a noi stessi, la comunicazione subirà disfatte e incomprensioni.

Questo mio contributo è rivolto alle relazioni di coppia, agli amici che non si comprendono, ai genitori che “non capiscono” cosa vogliono dire i loro figli, a tutti coloro che desiderano accrescere la loro capacità di comunicare più chiaramente con gli altri e che desiderano comprendere loro stessi nel profondo.