BUONE PRASSI E VALIDITA’ DELLA PSICOTERAPIA

La psicoterapia è uno strumento efficace e valido, basato su buone prassi condivise per il sostegno e la cura psicologica della persona.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (1948) definisce la salute come: “Lo stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, e questa definizione risponde alla constatazione che la salute, per l’uomo del terzo millennio, diventa correlata sia allo stile di vita sia ad una  armoniosa crescita personale e sociale.

Diventa dunque doveroso per gli operatori della salute interagire attraverso un percorso comune di acquisizioni, progetti condivisi e esperienze affinché la comprensione dei bisogni della persona nella sua complessità si esplichi in pratiche di cura sempre più significative ed ottimali.

L’attivazione di interventi integrati diventa, quindi, la risposta a una domanda di salute più complessa e sempre più orientata all’accoglienza di nuove concezioni e aperture nell’umano sentire e percepire che finalmente soddisfino il bisogno di ben-essere nelle persone.

Di fronte ai continui mutamenti sociali, si rende indispensabile l’interpretazione tempestiva del cambiamento, individuando le risorse in atto e promuovendo le nuove che necessariamente saranno orientate verso la serenità relazionale.

Nell’innovazione si rende, dunque, indispensabile rivedere e mettere a confronto i sistemi di riferimento di molte discipline. Così, il concetto di “buone prassi” torna alla ribalta con nuove integrazioni strutturali.

Si definiscono “buone prassi“ quelle linee guida da condividere e applicare in un ambito specifico. Esse sono il frutto di una ricerca congiunta che avvalori l’esperienza in tale ambito; una volta elaborate, queste linee guida diventano garanzia di trasparenza e affidabilità rispetto all’utilizzo di una qualsivoglia tecnica attinente all’ambito stesso della ricerca.

Inoltre, le ”buone prassi” possono definirsi tali se presentano una elevata  flessibilità progettuale e una stretta prossimità ai bisogni sociali, così come la presenza di capacità innovative sia in senso organizzativo che culturale, con forti connotazioni di riproducibilità e efficacia.

Si riscontrano, comunque, delle costanti, e su queste la ricerca pone l’attenzione verso la condivisione dell’accezione di “buone prassi”. Esse sono: da un lato, il riferimento, diretto o indiretto, alla metodologia del miglioramento continuo della qualità; e dall’altro il riferimento alle evidenze scientifiche – dove esse siano presenti (Tozzi et.al.,2011).

Per la sicurezza sanitaria, l’Organizzazione Mondiale della Sanità sta approntando protocolli incentrati sui progetti di prevenzione, educazione e soluzione concreta derivanti da esperienze basate su standard di qualità e sicurezza per il paziente, tenendo presente che: “Una pratica più sicura può anche essere descritta come una raccolta di numerose pratiche individuali che implicano decisioni e cambiamenti”, come spiega Woodwar Suzette, Direttore della Patient Safety Strategy presso la National Patient Safety Agency nel Regno Unito.

Il dibattito è aperto e critico e ha come punto di riferimento la necessità di ricreare indicatori specifici di buone prassi da monitorare nel tempo.

Il tema della sicurezza apre le porte alla grande problematica dell’efficacia di metodi, strategie, tecniche e cure ampiamente testate anche nel campo del mentale, ed entreremo ora nel merito specifico di una delle buone prassi più raccomandata a livello internazionale per la cura di molti disturbi psicologici: la Psicoterapia.

Prima di addentrarci nell’argomento, vorrei porre l’attenzione sul termine “è raccomandata” con alcune considerazioni etiche ed esempi. Quando ci rivolgiamo al nostro medico per ricevere una diagnosi e poi la cura, non mettiamo in discussione l’una o l’altra né lo sentiremo esprimersi in termini di “forse” o “è consigliato” o “è opportuno”, ma piuttosto lo percepiremo sicuro e perentorio e nei termini e nelle azioni.

La comunicazione di determinati termini, infatti, rende l’intenzione e ne determina l’azione; una frase che conterrà la parola “deve” ci rimanda all’obbligatorietà senza mezzi termini, così come una frase che contiene “dovrebbe” indica un requisito raccomandato e una frase che contiene “opportuno” preannuncia un’azione facoltativa.

Nella miglior pratica clinica tutti gli sforzi puntano a rendere consapevole il paziente di quello che sta accadendo, del perché della scelta di quella particolare terapia e quali risultati sono attesi. La parola sicura del medico è in un certo senso già parte della cura; simbolicamente, proprio il “camice bianco” evoca fiducia e speranza.

Dunque, uno dei motivi per cui ci affidiamo al nostro medico e torniamo a lui è la sua sicurezza nell’evidenza dei fatti, e questo rende già un servigio alla cura proprio in linea con l’ormai assodato presupposto che qualunque cura si potenzia nel rapporto col medico. L’insicurezza che denota il paziente sofferente e preoccupato per la sua salute viene così colmata e placata dalla sicura professionalità del medico e la via della guarigione diventa la nuova realtà.

In ambito psicologico, l’individuo ideale è e rimane un individuo indipendente, libero, autonomo nel suo agire, diverso nella sua unicità, che improvvisamente vede sfaldarsi il suo equilibrio per dei capricci della mente che lo rendono affettivamente infantile e fragile e che vorrebbe trovare una soluzione “medica” al disagio e ai disturbi inquietanti che lo sovrastano. 

Quando la persona giunge dallo psicologo clinico si troverà di fronte ad un paradosso solo apparentemente linguistico: non troverà la stessa perentorietà rassicurante del suo medico e le si chiederà di aprirsi ad una visione diversa del suo disagio, per affrontare una relazione umana che ridisegnerà le sue priorità di crescita personale e il suo benessere.

Questo paradosso non è sempre compreso e pone degli interrogativi. L’interesse destatosi nella ricerca psicoterapeutica negli ultimi quindici anni tende a rendere la psicoterapia una cura compresa e non criptica, e, stando al passo con i tempi, provvede a dimostrarne l’efficacia. Finalmente iniziano a essere di dominio pubblico i sorprendenti risultati di ricerche congiunte in questo campo.

Si è dimostrato che la psicoterapia apporta significativi cambiamenti nell’attività funzionale cerebrale dei pazienti e che tali modificazioni sono strettamente correlate al miglioramento clinico. Tali cambiamenti, inoltre, riguardano l’attività funzionale delle aree sia corticali, sia sottocorticali implicate nella specifica patologia studiata e non in altre aree (Cloninger, Svarik & Przybeck, 2006).

Così come riveste interesse la scoperta che sia la psicoterapia che il farmaco sono entrambi efficaci e in parte sovrapponibili nella cura delle diverse patologie psichiatriche, in quanto genererebbero entrambi un miglioramento clinico modificando l’attività neuronale, spesso delle medesime aree del cervello, ed inducendo anche cambiamenti nella stessa direzione di alcuni parametri biologici (Migone, 2009).

Vi è inoltre la conferma scientifica che i miglioramenti complessivi – dal sintomo alla qualità della vita e alla soddisfazione personale – dei pazienti trattati con psicoterapia sono dell’80% più durevoli in confronto a quelle persone che, in presenza degli stessi disturbi psicologici, non si sottopongono a cure psicoterapeutiche (Lambert et al.,2002).

A prescindere dagli approcci impiegati e dalla loro validazione, è necessario tener presente che gli orientamenti psicoterapeutici adottati nella pratica clinica sono molteplici e per ognuno di essi vi sono prove di efficacia di diversa natura, come la qualità della relazione terapeutica (Grasso, 2010) e l’alleanza terapeutica (Lingiardi, 2002) nelle psicoterapie psicodinamiche.

Come a tal riguardo afferma Fonagy: ”Non è tanto importante La ricerca quanto che tipo di ricerca – clinica, concettuale, storica, empirica – capace di arricchire le conoscenze psicoanalitiche e sostenere il lavoro clinico” (Fonagy, 1999, corsivo mio), in quanto la psicanalisi ottiene risultati simili alle altre psicoterapie, e senz’altro produce gli stessi cambiamenti strutturali nel funzionamento della personalità (Ortu, 2007).

Nei limiti di questo contributo, la panoramica esposta rileva una contemporaneità di questo straordinario metodo di cura per i disturbi mentali che denota anche l’aggiornamento culturale costante integrato con le diverse realtà globali.

Vorrei concludere con una citazione di Abraham Maslow che a mio avviso trovo molto attuale e che ci può aiutare a non perdere il senso del nostro lavoro immersi come siamo nel marasma di continui mutamenti  globali spesso non congeniali con la nostra storia o con le nostre aspettative di vita. Maslow dice:

“Che cos’è psicopatologico? Tutto ciò che disturba o impedisce l’autorealizzazione. Che cos’è la psicoterapia ed a che cosa serve? Si tratta di mezzi che aiutano a ristabilire la persona sulla via dell’autorealizzazione e dello sviluppo, lungo la linea indicata dalla natura interiore.”
                                                                       


RIDEFINIRE I PROPRI OBIETTIVI – Dai Bisogni all’autorealizzazione nella “fase 2 – convivenza con il virus”

“Lo sviluppo, il compimento di sé, saranno mai possibili senza dolore e pena, senza disperazione e tormento?” (Abraham H. Maslow)

In questo momento storico che vede la ri-progettazione di molti aspetti della nostra vita, questo articolo intende definire come sia difficile ora riformulare tale progettazione partendo dai bisogni fondamentali di benessere, lavoro, autorealizzazione, quando solo fino a ieri – dove la normalità si fondeva con la facilità a realizzare desideri consumistici – ci sembrava di poter confermare la presunzione imperante di una soddisfazione immediata in molti ambiti della nostra vita.

La lunga quarantena dovuta al Coronavirus può aver fiaccato anche la più energica motivazione al cambiamento e alla autorealizzazione ed è ora di vitale importanza riappropriarsi di tale motivazione anche per affrontare i problemi della conseguente crisi economica globale che investe l’esistenza di ciascuno.

E’ opportuno ora reimpostare i propri progetti, partendo dall’assunzione delle proprie emozioni, in quanto, solo riconoscendo le proprie emozioni e dando valore ad esse, si è poi in grado di investire i propri progetti di motivazione e portarli a compimento.

Siamo talmente abituati a misconoscere le nostre emozioni “scomode”, con le conseguenti tensioni che ci disturbano nell’efficiente andare per il mondo, che quando esse irrompono in noi creando un disequilibrio, ci spaventiamo al punto da innescare una protezione disfunzionale dalla nostra interiorità.

Accogliere la tensione – generalmente associata allo stress – che le emozioni – che consideriamo come “negative” – ci inducono, può apportare una nuova spinta creativa ai nostri progetti che in questo momento storico ci appaiono come irrealizzabili.

E certi progetti, per essere realizzati, hanno bisogno di tensione, una tensione fisica e psicologica, che ci aiuta a selezionare gli stimoli esterni che di volta in volta si frappongono nel processo di organizzazione che mettiamo in atto nella realizzazione di un progetto, e stimoli interni a noi stessi che ci portano a rinunciare, procrastinare, difenderci anche, e alle credenze dannose alla nostra crescita personale derivanti da indottrinamenti famigliari, ambientali, culturali, di genere.

La spinta alla progettazione di qualcosa che può migliorare la nostra vita parte da bisogni primari per la natura umana che possiamo raggruppare in bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di amore, di rispetto, di informazione.

Questi bisogni primari sono percepiti come conturbanti ma anche rivoluzionari,  auto accrescitivi e motivazionali.

Partendo dal presupposto che non esiste un tempo giusto, ottimale, per mettersi al lavoro su un progetto, e, cioè, che “non è mai il momento giusto”,  è probabile che il punto di partenza, dove nasce l’intuizione, sia in noi dettato da un impulso all’autorealizzazione che può partire anche da un bisogno primario e poi attraversare il desiderio e venir scartato proprio in quanto il desiderio viene contemplato come effimero e quindi  di trascurabile valore.

Già Maslow nel 1962 metteva in evidenza quanto le persone ritenessero i bisogni legati agli stati motivazionali in generale, come irritanti, spiacevoli,”fastidiosi”, indesiderabili, vedendoli come una   minaccia alla propria integrità, e quanto cercassero generalmente di liberarsene, di negarli o di evitarli giungendo in alcuni casi alla rimozione.

Come sottolinea l’autore di Verso una psicologia dell’essere, c’è un dato che è importante tener presente: “Se definiamo l’accrescimento come l’insieme dei diversi processi che conducono la persona all’autorealizzazione definitiva, ciò corrisponde meglio al fatto osservato che essa ha luogo durante l’intera vita dell’individuo” e prosegue spiegando che:  “… I bisogni fondamentali e l’autorealizzazione non si contraddicono l’un l’altro… L’uno passa nell’altro e ne è un requisito preliminare e necessario.”

Diventa centrale, allora, la soddisfazione o la non soddisfazione, che abbiamo sperimentato nel passato e che ci guida nel presente verso la progettazione.  La soddisfazione realizzata diventa un punto cardine della motivazione attuale e dirige la progettazione includendo quella tensione che non sembrerà più così pericolosa e destabilizzante, alleandosi con essa, permettendo così di ribaltare una condizione fastidiosa in una condizione quasi piacevole e vitale.

Nel passato di ognuno c’è stato un momento di soddisfazione verso la realizzazione di qualcosa di estremamente vitale nella propria esistenza e ognuno ha una sua specificità e unicità che lo contraddistingue.

Questi istanti preziosi vanno rintracciati, riscoperti, di nuovo assunti, e non importa se gli ambiti di realizzazione ci appaiono differenti da quelli in cui intendiamo operare ora, è la capacità creativa specifica che genera resilienza e resistenza interiore.

E’ lì che dobbiamo andare per ritrovare la giusta motivazione.

IL DOLORE NASCOSTO NELL’ISOLAMENTO SOCIALE – Vivere il disagio del confinamento ai tempi del Covid-19

“L’isolamento è l’esperienza di una perdita, mentre la solitudine è l’esperienza di una rinuncia. L’isolamento si subisce, nella solitudine si cerca qualcosa.”
(Hans George Gadamer)

Essere costretti  all’isolamento casalingo quando fuori  imperversa  un virus potente e sconosciuto, in un’epoca moderna, globalizzata, efficiente, dove tutto è ormai a misura di bisogno realizzato, dove le differenze sociali e culturali sono ancora più accentuate ma ci si prodiga per non vedere,  cosa può significare  psicologicamente per l’uomo  di questo tempo?

Ci sono diverse fasi psicologiche che è possibile attraversare interiormente quando stiamo vivendo situazioni potenzialmente traumatiche e possiamo senz’altro affermare che l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo a livello globale è una di queste.

Nell’immediatezza del  primo periodo di lockdown, il nostro impegno personale si è legato all’obbligo di isolamento sociale ed è diventato solidale e sostenibile a livello comunitario.

Questo primo periodo è stato caratterizzato, a livello interiore,  da una novità dove l’adattamento e l’esempio degli altri ci ha visto tutti molto virtuosi e abbastanza disciplinati. Le nuove tecnologie con la possibilità di stare perennemente connessi a distanza con gli altri ci hanno salvaguardato psicologicamente dandoci anche nuove risorse di aiuto per noi stessi e per gli altri oltre a darci un senso altro, virtuoso appunto, a questo stare rinchiusi.

In questa prima fase è probabile che i sentimenti  caratteristici di ognuno e appartenenti al pensiero astratto  e che quindi ci caratterizzano nell’interpretazione personale che diamo agli eventi , abbiano potuto nascondersi ancora di più in profondità – non era certo quello il momento adatto per ribellarsi lasciandosi prendere dalla dirompente forza delle emozioni come  la paura, la rabbia, il disprezzo, verso se stessi o verso l’altro, emozioni che irrompono nel sentimento di base di ognuno stravolgendo la personale interpretazione del mondo.

Ed “è andato tutto bene” parafrasando l’hashtag imperante “andrà tutto bene” . Ma sappiamo tutti che non è stato così per troppe persone e non lo sarà ancora per diverso tempo e in diverse aree del nostro paese.

Nella seconda fase o di convivenza con il virus dovremo fare i conti con il dolore sotteso di ognuno per la perdita di privilegi acquisiti sul proprio ruolo sociale, individuale, nonchè sulla virtuosità psicologica di resistenza alle avversità.

Diventa necessario tener presente un aumento della componente negativa dello stress – distress – che a differenza dalla componente dello stress che fisiologicamente ci stimola all’adattamento verso nuove situazioni e nuove sfide – eustress –  può interessare la persona, che nel protrarsi dell’isolamento sociale può perdere il senso prescritto di contrasto del contagio, con sentimenti emergenti di rabbia e impotenza  e iniziare a viversi il confinamento solo come una forma di costrizione ai propri movimenti verso l’esterno,  sentimenti di paura verso l’altro probabile diffusore del virus, diffidenza, ma anche paura verso i propri sentimenti e le proprie emozioni che lo riporterebbero verso i propri lati ombra, dove i moti pulsionali mettono in risalto particolari della propria struttura psicologica e psichica in mutamento regressivo.

Svuotamento emotivo, derealizzazione e depersonalizzazione, rassegnazione, fino a raggiungere veri e propri quadri psicopatologici con sintomatologia depressiva – tanto più se sottesa alla struttura di personalità – ma anche disturbi del sonno, disturbi cognitivi di attenzione per troppi stimoli contrastanti interni ed esterni, possono insorgere capovolgendo l’equilibrio individuale e famigliare.

Bisogna innanzitutto tenere presente che lo scenario presentato già coinvolge categorie lavorative – come gli operatori sanitari –  e tipologie di personalità più vulnerabili. Tuttavia, qui si intende mettere in evidenza come le conquiste maturate per quanto riguarda il superamento dell’isolamento sociale, avvenute in percorsi psicoterapeutici condotti da diverse persone di diverse fasce d’età, sono state dismesse, con conseguente rischio di una regressione o un ritorno a stadi precedenti il lavoro terapeutico.

Nello stesso tempo, si impone una presenza di aiuto professionale per tutti coloro che percependo disagio psicologico crescente ne sentano il bisogno. E’ necessario che tutte e tre queste tipologie di casi – persone che durante questa emergenza sono state esposte a forte stress, per coloro che hanno subìto le conseguenze traumatiche del virus e per quelle persone che hanno dovuto interrompere anche bruscamente il proprio percorso terapeutico – possano usufruire di sostegno psicologico senza temere altre stigmatizzazioni – oltre quella del virus – e dando valore al proprio vissuto emozionale.

SCEGLIAMOCI – Confinati in casa, riflettiamo per crescere

In famiglia, da soli, in coppia, con i bambini, in questa situazione drammatica di emergenza sanitaria ci ritroviamo a vivere nelle nostre case con una percezione differente rispetto a prima, come se ci incontrassimo per la prima volta con le nostre fragilità e paure e più tempo a disposizione per riflettere sulla nostra vita.

Può, questa, pur nella drammaticità della situazione, diventare una risorsa per scoprire qualcosa di più su noi stessi e sulle persone che amiamo.

Qualcosa emerge più di altre, il sentirsi incompresi dalle persone con cui viviamo o con cui ci sentiamo tramite l’aiuto della tecnologia che in questo momento di chiusura con l’esterno ci affianca e ci sostiene.

Nello stesso tempo, non comprendiamo gli altri, le loro richieste ci appaiono come pretese, il conflitto si mostra in tutta la sua potenza confusiva.

Che succede? come mai situazioni che prima non ci apparivano importanti ora mostrano il loro lato ombra?

Abbiamo spesso visioni troppo idealizzate sulle relazioni – così come verso parti di noi stessi – e se questo viene vissuto come qualcosa di magico, è vero anche che condanna i protagonisti della relazione a un continuo gioco di malintesi e delusioni dove le aspettative sono spesso sul comportamento che “dovrebbe” tener l’altro verso di noi generando giudizi, disillusioni, e dubbi che arrovellano la mente.

Scegliamo noi stessi quando i dubbi ci assalgono e la nostra capacità decisionale viene meno.

Scegliere noi stessi diventa così un atto coraggioso che ci darà la forza necessaria a dipanare il dubbio, che sia un dubbio sulla relazione o un dubbio che apre ad un conflitto profondo sul prendere posizione nella vita delle persone che amiamo.

Scegliendo noi stessi, rispettandoci, accogliendoci nella nostra confusione senza giudicarci, avendo pazienza per noi stessi in primis.

In questo modo manderemo all’altro un messaggio di grande responsabilità soggettiva e, come fosse un atto in sé, o una frase ad effetto, verrà percepito come una possibilità di espressione unica anche per l’altro che forse non aspetta che questo per tranquillizzarsi.

Vivere un rapporto interpersonale reale e non idealizzato comporta il tramonto di stereotipi culturali e generazionali che plasmano amaramente la nostra soggettività e ne diventano anche alibi.

Riflettere in modo sincero con noi stessi, con flessibilità e amorevolezza verso le nostre fragilità può diventare così un’opportunità simile ad un avventuroso viaggio verso la scoperta di nostre potenzialità mai neanche immaginate.

LO SPAZIO ANGUSTO: LA COPPIA CONFINATA dalla rassegnazione alla risorsa

Il confinamento nelle proprie abitazioni richiesto e attuato durante l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ridisegna equilibri consolidati che nel caso della coppia possono mettere duramente alla prova la sopportazione reciproca.

Ripercorrere i passaggi di incontro originario ci può, allora, aiutare a trovare lo “spazio d’uscita” per non vivere il confinamento casalingo come l’anticamera della fine dell’unione d’amore.

Quando la coppia si forma, le differenze individuali che contraddistinguono i due partner vengono percepite come punti di forza e base per una buona unione.

Molto spesso, però, nel tentativo di conciliare le due personalità in un progetto comune, i due partner lentamente perdono di vista proprio quello che, oltre l’attrazione fisica, li ha uniti.

Se subentra una crisi, ma anche un evento eccezionale come quello che la pandemia ci sta facendo attraversare, ritroviamo nei due partner un sentimento di rivendicazione per i propri spazi personali, per le proprie idee, per i propri valori ma anche verso le aspettative individuali sulla loro unione, come se fino ad allora si fossero sacrificati nell’esprimere sé stessi.

Lo spazio casalingo diventa improvvisamente uno spazio angusto, troppo piccolo – nella percezione dello spazio poco contano le dimensioni oggettive e gli spazi suddivisi – dove la privacy improvvisamente viene a mancare, dove ci si sente “costretti” a “condividere” pasti, riposo, tempo libero.

La coppia scopre di essere formata da due individui separati e compaiono, come uno shock, anche gusti diversi, preferenze differenti.

Si scopre qualcosa di nuovo: Io sono io e tu sei tu!

La comparsa delle differenze individuali nella coppia: genesi

Nell’esaltazione della prima fase d’unione, i due partner presentano all’altro solo l’aspetto migliore di sé aderendo anche ad un modello più accettabile socialmente.

Questa fase “fisiologica” nell’incontro tra i due partner può durare molto tempo, ci possono essere matrimoni impostati solo su questa prima fase grazie alla capacità istrionica del femminile e alla capacità camaleontica del maschile.

La suddivisione del lavoro aiuta a mantenere questa “distanza” tra i due. Una coppia così impostata difficilmente si arrenderà all’allargamento familiare che il concepimento dei figli comporta.

Una nuova opportunità

A poco a poco che la conoscenza tra i due va avanti, emergono anche i conflitti e/o i disagi personali che li affliggono individualmente e diventa sempre più difficile nasconderli all’altro ma anche a sé stessi.

Nel confinamento attuale, questo nuovo assetto può disorientare.

Improvvisamente l’altro si svela al partner come pieno di “difetti” o come “problematico”.

Questa nuova realtà, questa nuova “verità” della coppia, suggella spesso il “io ti salverò” che trascina i due nell’isolamento e nella frustrazione.

Ma, citando il grande romanziere Italo Calvino, “La conoscenza del prossimo ha questo di speciale, passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stessi”.

La coppia che riconosce il problema del cambiamento individuale come risorsa e non solo come risultato delle apparenti presentazioni della propria personalità individuale, sarà la coppia che riuscirà a ridefinirsi nel confinamento riuscendo a trovare  la giusta motivazione al cambiamento, comprendendo che forse quelle evidenti differenze individuali emerse nella crisi, potranno rafforzare e non indebolire la loro unione, imparando a modulare le emozioni da condividere con le emozioni da elaborare individualmente prima di incontrarsi con l’altro.

Lo spunto che qui si intende porre è di concentrarsi nell’osservazione dei seguenti aspetti:

  • focalizzare l’attenzione sulle false comunicazioni che si vengono a creare tra i due partner
  • concentrarsi su una o più sequenze di azione tra i due ripristinando la comunicazione diretta, non aggressiva, verbale, pacata, nel rispetto delle emozioni dell’altro e delle proprie
  • prediligere la base comune, riscoprendo il focus comune originario che diventa la bussola della nuova armonia.

Si può, allora, vivere nello stesso spazio abitativo senza tarpare le ali individuali, uniche e – si scopre, paradossalmente – amate fin dall’inizio dell’incontro originario.

IL DISTANZIAMENTO SOCIALE COME MISURA PREVENTIVA NELL’ATTUALE EMERGENZA SANITARIA – un’analisi metapsicologica

L’anno in corso si è aperto e si sta imponendo nelle vite di tutti con una pericolosa pandemia, quella del Coronavirus, che richiede la trasformazione delle abitudini consolidate, del lavoro, delle relazioni, e anche del rapporto con noi stessi e le nostre fragilità psicologiche e sopratutto fisiche.

Di fronte ad un pericolo esterno a noi, reagiamo con meccanismi di difesa che caratterizzano la struttura di personalità di ognuno e che quindi solo apparentemente possono venir omologati a comportamenti collettivi se non addirittura sociali.

Questa considerazione apre all’osservazione e alla valutazione del singolo, in quanto è nel singolo che si presenta anche la soluzione creativa – intesa come soluzione adattiva superiore – che permetterà il superamento di forti stati di angoscia e di forte incertezza sul futuro così come appaiono caratteristici di questa specifica pandemia.

Uno degli aspetti più rilevanti che il Coronavirus – COVID-19 – ci sta imponendo è il distanziamento sociale, quella distanza dall’altro da noi che sia sufficiente per contrastare il contagio del virus, così come ci viene indicato nelle linee guida degli scienziati e dell’OMS.

Ma cosa comporta psicologicamente il distanziarci dall’altro?

Dalle prime osservazioni constatiamo reazioni primarie di prudenza che però nascondono altro, dove questo “altro” va rintracciato in strategie di sopravvivenza primordiali e meno evolute e quindi insite nella nostra parte interna più arcaica, evolutivamente regressiva, che viene attivata dallo stato di paura.

Solo dopo compare la responsabilità individuale  nei confronti  della cura a continuare il distanziamento sociale per proteggere anche gli altri e non solo noi stessi dal contagio nell’eventualità fossimo noi  i presunti contagianti.

Quindi, prima viene l’altro come possibile pericolo per la nostra incolumità e solo dopo – come crescita evolutiva – l’integrazione mentale che potremmo essere anche noi i portatori e che l’altro va protetto anche da noi stessi.

Ritengo questo aspetto una chiave per poter interpretare reazioni individuali  nei soggetti con fragilità psicologiche e psichiche che elicitano regressioni comportamentali a precedenti stati d’essere cosiddetti  irrazionali.

Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io ci insegna che nella massa,  l’individuo si trova protetto – attraverso la rimozione – dai propri moti pulsionali inconsci, in quanto l’identificazione con il capo, prima, e con gli altri, dopo, lo tutela dall’esplosione di tali moti pulsionali che può avvenire, per esempio, nella circostanza della perdita di sicurezza che produce angoscia e conseguente espressione di panico generalizzato:

“Il sentimento sociale sta quindi nella trasformazione di un sentimento precedentemente ostile in un attaccamento positivo sotto forma di identificazione… Tutti gli individui vorrebbero essere uguali ma anche governati da una singola persona.”

E di perdita di sicurezza si tratta nella pandemia che ci sta coinvolgendo globalmente.

Il momento in cui lo scienziato, il capo di stato, i funzionari, guidano e regolamentano il comportamento anti contagio, il senso di sicurezza sociale viene ripristinato dopo il primo shock individuale ed avviene la trasformazione (di cui sopra), di natura cognitiva: dalla diffidenza verso l’altro che può contagiarci, alla responsabilità individuale di tutela dell’altro.

Questa possibilità coerente che investe il gruppo – la massa di Freud – e che nel distanziamento sociale trova la sua espressione nel caso della pandemia da COVID-19,  ha, dunque, insita in sé una crescita di coscienza superiore, volta sia al superamento dell’angoscia di perdita e sia alla risoluzione della malattia a livello collettivo.

QUANDO LE EMOZIONI POSITIVE ALLEVIANO LE INFIAMMAZIONI NELL’ORGANISMO

Un recente studio svolto da un gruppo di ricercatori statunitensi ha messo in luce come siano importanti le modalità con cui rispondiamo alle situazioni stressanti che ci capitano nella vita quotidiana. In particolare, i ricercatori sono giunti alla conclusione che avere un atteggiamento positivo anche nelle difficoltà aiuta non solo a prendere con più leggerezza i problemi più o meno grandi che la vita ci presenta, ma anche a ridurre i livelli di infiammazione presenti nell’organismo. La ricerca ha coinvolto un campione di persone a cui è stato chiesto di compilare un diario giornaliero per otto giorni consecutivi e che doveva includere le situazioni di stress quotidiano – problemi in famiglia, sul lavoro, in occasioni sociali o di studio con altri – che si presentavano di volta in volta, e le rispettive reazioni emotive a questi eventi.

Questi dati sono stati incrociati con quelli relativi ai livelli di infiammazione presenti nell’organismo al momento della ricerca e raccolti mediante l’analisi di campioni di sangue appositamente prelevati e rilevabili tramite la ricerca di specifici marker infiammatori (nello specifico l’interleuchina 6 e la proteina C reattiva). Dal risultato di questo incrocio è emerso come le persone che reagivano più negativamente allo stress avevano livelli di infiammazione maggiori, mentre coloro che riuscivano ad affrontare le problematiche senza abbattersi troppo avevano livelli di infiammazione inferiori. Nello specifico, dallo studio è emerso come le donne siano particolarmente a rischio di sviluppare alti livelli di infiammazione se non sono in grado di affrontare gli eventi stressanti con un atteggiamento positivo.

RIFLESSIONI PRATICHE

Come ci può aiutare questo studio nella comprensione delle nostre reazioni?

Che cosa significa attuare un atteggiamento positivo di fronte a situazioni spiacevoli?

Se partiamo dall’ascolto delle nostre esigenze personali anche in momenti relazionali complessi, possiamo vedere come le nostre reazioni siano difensive e volte alla sfida della sopravvivenza, cosi come rovesciamenti di situazioni conosciute portano a crisi psicologiche che impongono domande di riequilibrio. La difficoltà ad adattarsi alla resa – come se il cambiamento presupponesse una lotta – può far restare la persona ferma sulla propria sofferenza dell’ingiusto destino. Coinvolti in relazioni insoddisfacenti, basate su bisogni disfunzionali, si iniziano a sperimentare anche sintomi nuovi e/o malattie che convogliano l’umore in reazioni emozionali con connotazioni conflittuali e disturbanti.

Assumere un atteggiamento positivo e, dunque, mettere in moto in noi stessi emozioni positive che richiamano il rilascio di endorfine, genera uno stato psicofisico di armonizzazione e benessere che aiuta nella guarigione e anche nel vedere complessivamente da una diversa angolazione il nostro dispiacere. L’essenziale è non negare che ci siano problemi, ma accogliere il problema con la priorità di risolverlo; facendo si che proprio questa accettazione – che comprende la nostra assunzione dei limiti – apra alla consapevolezza che disponiamo anche di risorse emotive che rinforzano lo stato dell’umore, invece di indebolirlo.

Le circostanze non determinano automaticamente l’intensità delle nostre sensazioni – che rappresentano l’essenza delle emozioni –, piuttosto è il modo in cui interpretiamo e pensiamo gli eventi a provocare i nostri stati emotivi che sono sempre accompagnati da modificazioni fisiologiche e che trovano la massima espressione nel comportamento emotivo.

UN ESERCIZIO

L’essere umano è in grado di richiamare a sé con l’immaginazione emozioni piacevoli legate anche a situazioni già vissute e questo è un ottimo esercizio introspettivo verso l’approfondimento della propria personalità, ed è utile e rigenerante in condizioni di difficoltà emotive e/o di dolore fisico per modificare attivamente lo stato fisiologico in cui ci troviamo e ritrovare quella serenità di base che ci porta a riflettere in modo migliore e, dunque, a rispondere in modo più equilibrato agli eventi nel rispetto di noi stessi e degli altri.

STRESS ED EVENTI DI VITA: DALLA PERCEZIONE DI UN EVENTO COME STRESSANTE ALLA RISORSA DEL PENSIERO

La vasta tematica riguardante lo stress come risposta adattiva pone in evidenza le complesse relazioni che intercorrono fra il mondo esterno e la persona nella sua interazione mente-corpo nonché nella capacità della stessa di far fronte agli stimoli che possono alterare il suo stato di equilibrio.

Alcuni aspetti importanti inerenti lo stress e i modi di affrontarlo sono comuni a più persone, quello che differisce ed è unico per ogni tipo di personalità è il modo in cui un evento potenzialmente stressante viene interpretato dalla persona. Questo perché la diversa immagine e concezione della vita che ognuno ha, funge da modello nella decodificazione dello stimolo stressante rendendo la persona più o meno vulnerabile all’alterazione del proprio equilibrio psicofisico.

Dunque, riuscire a far fronte alle difficoltà che lo stress comporta è uno dei compiti più importanti per l’essere umano a partire dalla propria nascita, e nel corso della lotta per la sua sopravvivenza.

Nel tentativo costante di mantenere un equilibrio ottimale, dobbiamo mettere in conto che ogni evento che produce un cambiamento nel nostro modo di vivere determina una condizione di stress a cui segue un riadattamento nel nostro stile di vita.

L’assunzione di nuove responsabilità in persone giovani e adulte – come possono essere la fine degli esami, il diploma, la laurea, dal primo impiego lavorativo al cambio di mansione, la perdita momentanea del lavoro, il matrimonio, la separazione e il divorzio, la nascita di un figlio o la difficoltà a concepirne uno in modo naturale, un trasferimento in un paese diverso da quello dove si è cresciuti, la morte di una persona cara, importanti malattie succedutesi nel tempo – possono influire sull’equilibrio psicologico generando un livello di allarme che – secondo predisposizioni personali – può portare ad un aumento di attività volte al recupero delle proprie risorse interne così come ad una sorta di immobilismo parossistico e alla riacutizzazione di disagi psicologici come ansia generalizzata, attacchi di panico, pensiero dominante di tipo ossessivo, che intrappolano la persona sfinendola ancora di più e allontanandola dalla ricezione corretta delle proprie emozioni.

Alla sorgente di queste diverse risposte agli eventi di vita c’è l’assunto di base secondo il quale noi non avvertiamo alcun disagio fino a che non percepiamo che tra noi e l’ambiente si è alterato il delicato equilibrio che ci permette di interagire efficacemente con esso.

Come “pensiamo” l’ambiente, le richieste che esso ci pone e che mettono a dura prova le nostre risorse e la nostra capacità di farvi fronte, è una caratteristica cognitiva umana che ci dimostra come siano i nostri pensieri a determinare le nostre risposte allo stress.

La capacità di prevedere e controllare quello che succede è il primo fondamentale fattore che influenza la percezione di un evento come stressante ed è per questo che per alcune persone l’effetto sorpresa genera ansia e disequilibrio mentre per altre la valutazione della stessa situazione imprevista può divenire una sfida stimolante, comunque vitale.

In questa valutazione cognitiva è presente la convinzione che le circostanze possono tradire il nostro impegno certosino a costruirci una stabile solidità interiore, mentre quello che gli eventi di vita ci insegnano spesso in modo doloroso è che le circostanze contengono la possibilità di perdita.

Sappiamo quanto questo può essere vero se rileggendo nel ricordo un’esperienza passata, riconosciamo quanto ha inciso la nostra specifica e unica “lettura” personale dell’evento nel determinare la risposta all’esperienza che abbiamo vissuto.

Il passo successivo alla conoscenza di noi stessi sarà quello di rendersi consapevoli della nostra più grande risorsa: la capacità di pensare, di riflettere in modo critico sulle circostanze e sulla nostra modalità di risposta appresa dalle precedenti esperienze, fino ad allineare questo alla nostra esigenza di benessere psicofisico e provvedere al futuro considerando interventi di crescita personale e percorsi di tipo psicologico come la psicoterapia, come strumenti volti al rafforzamento interiore e non, come comunemente visti, come segno di debolezza o di poco carattere.

LA PELLE COME SPECCHIO DELLE EMOZIONI NON RICONOSCIUTE: Significati psicosomatici

autunno

Sulla pelle ritroviamo scritta la nostra storia così come la pelle è il nostro confine, essa ci racchiude, ci integra, ci delimita nella nostra forma fisica. La possiamo nascondere agli occhi e al tatto degli altri ma solo in parte. La possiamo mostrare, svelandoci agli occhi di noi stessi e degli altri, ma non solo in parte perché la pelle può tradire il nostro vissuto interiore.

La pelle rappresenta un confine labile tra noi e gli altri ed è la prima parte di noi stessi ad essere colpita… o amata. Sulla pelle i segni restano ben visibili o diventare un’ombra sensibile al tatto che ci ricorda qualcosa che forse vorremmo dimenticare. Questa è la pelle come corazza che sfida l’altro e il mondo con cicatrici, sfoghi, piccole piaghe e spesse chiazze che parlano al nostro posto, raccontandoci senza parole.

Possiamo comprendere quanto sia importante per il nostro equilibrio psicofisico la salute della nostra pelle partendo dalle origini del nostro cammino fin dal concepimento. Le cellule che rivestono primitivamente l’embrione, in parte formano il cervello e il resto del nostro sistema nervoso, e in parte rimangono sulla superficie dell’embrione fino alla fine del suo sviluppo per formare la cute. Dunque, così come esistono diverse patologie dove due organi sono contemporaneamente malati perché interconnessi, la pelle è soprattutto un importante organo di difesa capace di strutturarsi a seconda delle esigenze dell’individuo diventando una vera e propria spia del nostro stato di salute che dobbiamo imparare ad ascoltare e a leggere con attenzione amorevole.

Accettare che esiste il legame mente-corpo in quanto connessione inscindibile primaria, significa comprendere e dare una lettura nuova, psicosomatica dunque, a disturbi che abbiamo sempre e solo diviso, scisso, perché più comodi da controllare, negando e sottovalutando quanto la mente condizioni il corpo, ne diriga le alterazioni e la guarigione e quanto il corpo, se ferito, offeso, ritrovi nella mente significati di resa e disperazione che si possono alimentare fino a giungere alla ripetizione cognitiva di schemi psicologici non adattivi.

Se per alcune malattie psicosomatiche può sfuggire il senso di connessione tra la mente e il corpo, nel caso dei disturbi cutanei appare più evidente il senso in quanto è proprio sulla pelle che i conflitti emotivi vengono “scaricati”.

Chi soffre di disturbi cutanei fatica a esternare e a condividere le proprie emozioni, le tiene prigioniere nello scrigno segreto della latenza in quanto scomode o considerate negative e quindi cattive. Si racchiudono, così, conflitti prevalentemente relazionali, dove la visione del mondo del soggetto include il sintomo come veicolo di accettazione/rifiuto dell’altro e di se stessi.

Il dolore che provoca la rabbia inconfessata, il risentimento, la recriminazione interiorizzata, vengono sfogati sulla pelle. Le reazioni cutanee pruriginose di cui non sono rintracciabili cause tossiche ambientali e/o alimentari sono, così, riconducibili ad una tossicità autoprodotta dal soggetto che nel tentativo di controllare il problema che lo fa soffrire, deve  pur sempre mantenere il suo equilibrio psicofisico di base e per ripristinarlo in caso di alterazione, tenta a modo suo di condividerlo all’esterno.

In un continuum che comprende due estremi, soprattutto in soggetti iper-controllati dove la meticolosità e la razionalità prevalgono sull’espressione immediata delle emozioni, l’intenso trasporto come l’eccitazione ansiosa, vengono veicolate in prima istanza nell’esplosione di attività di spostamento come il prurito dove l’atto di grattarsi diventa la comunicazione emozionale fino a quel momento inibita.

Il prurito diventa un modo di grattarsi via un persecutore interno – fantasmatico o reale non ha più importanza – che non dà tregua. Ma il prurito aspecifico incontrollabile può essere anche la difesa a un cambiamento di pelle, a un passo esistenziale verso un’identità nuova, alla scelta della propria creatività, all’assertività.

Il disturbo cutaneo diventa, così, simbolo e stigma dove ciò che viene mostrato all’altro è l’unico modo che il soggetto sofferente ha di sentire in sé un sentimento esistenziale e di cercare un sentimento identitario che in qualche modo lo porti ad accettare l’espressione dei suoi contenuti emotivi, elemosinando un contatto attraverso la malattia, trattenendo l’espressione di sé per paura di nuovi rifiuti.

La paura di un rifiuto ormai lontano nel tempo, si ripropone e diventa difesa estrema, corazza, in una disperazione che oscilla tra il desiderio di fondersi con l’altro e la paura di perdere i propri confini, in un’identità dipendente dall’altro e dalle reazioni dell’altro. La pelle si ispessisce e la fantasia è di essere trasparenti.

Il percorso psicoterapeutico si può inserire in questo movimento mettendo “a nudo” le fantasie aggressive frutto di un rifiuto “a pelle” subito in passato, alimentando un senso di identità che si sente fragile, rinforzando un soggetto “trasparente” e invaso. Attraverso la relazione terapeutica, perché il conflitto è relazionale – è un conflitto che nasce nel gruppo umano con le sue paure e le sue regole –  e dal rapporto con l’altro (il terapeuta) riceverà la parola alle emozioni e l’accettazione del rischio relazionale.

La pelle si trasforma come si trasforma la persona affrontando i passaggi evolutivi e il rifiuto passato può diventare la spinta, il motore di un rinnovamento, verso l’accettazione di se stessi e delle proprie contraddizioni e l’accettazione dell’altro con i suoi limiti, le sue paure, i suoi desideri di contatto e di amore.